«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Appunti sulla logica divina il 20 aprile 2020

di Giovanni Traverso

Kairòs, il tempo propizio

Meditazioni filosofiche sulla logica divina: dipendenza esistenziale; dell’origine dell’universo; nulla assoluto e relativo; kairòs, il tempo propizio.

Dipendenza esistenziale

Con dipendenza esistenziale significhiamo quella relazione costitutivamente originaria fra il nostro esistere creaturale e l’essere increato, secondo la distinzione delle rispettive nature.
Tutti noi esistiamo in quanto oggetto di un pensiero antico che ci ha tenuti presso di sé, nel proprio intendimento eterno, per costituirci come realtà create con la sua scienza.
La natura increata, essendo ingenerata, non ha avuto inizio; viceversa, ogni esistenza, pur muovendo da eterno principio, attuandosi nel tempo creato e nella sua creaturalità propria, ha un inizio. Ogni inizio creaturale, in effetti, può originarsi solo in quanto concepito dal principio, e nel principio suo, che è eterno, attuarsi. Tutte noi creature, pertanto, siamo costituite entro un piano di esistenza, che coinvolge ad un tempo l’eternità della scienza di Dio, ideatore comune, e il tempo della nostra esistenza (1).

Dell’origine dell’universo

Ragionare su questi crinali, conduce il nostro intelletto a guardare là dove molti prima di noi si sono affacciati: sull’origine dell’universo.
Secondo la fisica odierna, l’universo ha un inizio, databile nel novero di un numero finito di miliardi di anni or sono. Questo è l’indizio più forte circa la sua creaturalità; proprio le scienze ce lo offrono. Ammettere fisicamente che l’universo abbia avuto un inizio significa escludere intanto che esso sia eterno: ciò comporta invero chiudere i conti con concezioni olistiche, panteistiche, spinoziane (2) del reale, secondo quell’intendimento in cui molta della filosofia arcaica versava e che ancora oggi si ripresenta sotto nuove forme e derive. In secondo luogo, sostenere che esso ebbe inizio ed è in continua espansione, come le scienze fisiche sembrano dirci oggidì, comporta confrontarci anzitutto con la sua (e nostra) finitezza.  Ovvero, con la natura sostanzialmente creaturale di tutto l’esistente. In altre parole, poiché l’universo ha un inizio e dei confini (ché, altrimenti, come se ne affermerebbe l’espansione?), i suoi spazi in estensione sono limitati; i fenomeni d’esso accaduti, accadenti e accadibili, altresì, costituiscono un insieme complessivamente discreto di eventi;  tutte le genealogie dei viventi inscritte in esso, inoltre, si confermerebbero intrise della creaturalità comune, destinata dal principio a tutte le esistenze che cominciano, al fine di esistere.
La fisica contemporanea, secondo una fra le dottrine più accreditate, afferma oggi che tutto ciò che esiste – ossia l’insieme di tutti i fenomeni fisici, organici e psicologici che denominiamo “universo”, nonché lo stesso spazio e il tempo dal momento del loro sorgere – si sia originato dal nulla. La qual cosa, sconcerta non poco. In che modo potrebbe concepirsi un tale cominciamento?
In effetti, poiché il nostro concepire qualcosa è esso stesso un atto creaturale, non è strano che inoltrarsi fino al punto di concepire la nascita dell’universo dal proprio nulla, lasci sgomenti e perplessi: annichilirsi per trovare una risposta, pur per le vie della rappresentazione mentale, sembra effettivamente impossibile. Un tale sgomento, tuttavia, non deve essere sottovalutato, perché esso ci indica comunque una via logica in cui far correre il pensare.
Ora, la fisica naturale non offre risposta circa il come lo sprigionarsi dal nulla dell’universo  sarebbe avvenuto. Una tale indagine, del resto, esulerebbe proprio lo specifico oggetto di quella scienza, dal momento che essa indaga gli esistenti per ciò che concerne le proprietà fisiche inerenti ai loro corpi, nonché quelle leggi a cui, in quanto posti in uno spazio, obbediscono e sono sottoposti; onde, di fronte alla domanda suddetta circa il come l’universo si origini dal nulla, poiché di ciò che è nulla nulla potrebbe dirsi dal punto di vista fisico, nulla ella potrebbe risponderci al riguardo con i metodi della sua scienza.
Per tale ragione, occorre sconfinare il campo dell’indagine fisica, per fornire una risposta al quesito sul come possa nascere universo dal nulla, armandoci di taluni concetti logici ed ontologici cari al pensare filosofico. Nel far questo, secondo la metodologia che ci è propria, occorre nel qual tempo procedere nel confronto serrato con quella logica divina che si rivela alla nostra intelligenza parlandoci attraverso le scritture sacre.
Con l’ausilio dei ragionamenti filosofici, nonché scrutando fra le righe degli scritti sacri, vogliamo infatti affrettarci verso una spiegazione possibile intorno alla domanda: come può dal nulla venire la compagine universale?

Nulla assoluto e relativo

Occorre allora distinguere due concetti che possiamo avere intorno al nulla. Definiamo il nulla dell’esistente, o nulla a sé relativo, la situazione in cui ogni esistenza si trova prima di essere oggetto creato, ancorché eternamente pensata e presente nel suo principio, ossia, quale progetto di creazione presente nella logica divina. Definiamo, invece, nulla assoluto, quella concezione verso cui il pensiero si obbliga, percorrendo fino alle estreme conseguenze la teoria fisica intorno alla nascita dell’universo, laddove essa conduca a concepire l’universo (o plurimi e financo infiniti universi) come pura totalità in sé stessa, principiatasi da sé soltanto, ossia senza un eterno principio trascendente che dia esistenza all’esser nulla della cosa universale, dovendosi in questa seconda ipotesi concepire il nulla come assoluto e originario; ovverosia: concepire il nulla quale eterno principio dell’esistente.
La seconda opzione, tuttavia, ci mette a disagio: essa contraddice il pensiero stesso. Può darsi origine del tutto universale da un nulla assolutamente concepito, postulatosi necessariamente quale principio eterno della realtà? Ma se è principio, è qualcosa: non già nulla. Infatti: o il nulla è davvero nulla, oppure non sembra potersi dare quale principio. Ma se non è, perché non può essere principio, tantomeno, di esso, potrebbe predicarsi l’eternità, pur dovendolo fare, in quanto -nell’ipotesi- tutto l’universo sarebbe scaturito da esso.
Questa via del pensare appare dunque inconcepibile, imperseguibile, imperscrutabile, non perché troppo elevata, ma in quanto esageratamente erronea e contraddittoria. Anzi: nell’indagine intorno alla natura delle cose, essa segna luogo di una contraddizione allo stato puro.
Il radicale contraddirsi di un tale concepimento logico, ossia di quel concepimento della realtà che affermerebbe le cose essersi originate dal nulla qual loro principio, del resto, venne sollevato quale prima pietra gettata ad Elea, a fondazione dell’indagine filosofica intorno alla natura del cosmo già nel VI secolo avanti Cristo da Parmenide (544 a.C. – 450 a.C. circa). Nella sua opera in versi filosofici, Περί Φύσεως (Della natura delle cose), in parte tramandataci, questo ardito poeta e filosofo sbarrò con versi bronzei la porta a chi, scioccamente, si infilasse per vie di opinioni (δόξα) diverse da questa:

« L’essere è e non è non essere » (fr. 3,3).

Intorno all’interpretazione di questo e molti altri suoi versi celebri si interrogarono e meditarono nell’antichità Platone, Aristotele, e nei nostri tempi Heidegger (fino al nostro da poco scomparso E.Severino). Senza dare conto delle loro riflessioni al riguardo, che in parte non conosciamo, in parte sono troppo elaborate per poter essere sinteticamente intese dal nostro semplice intelletto, diciamo però che qui, in questi versi, viene scolpito come architrave un principio di non contraddizione della realtà, secondo il quale si afferma in modo perentorio una legge della realtà: il fondamento della realtà è un modo dell’essere, il quale può predicarsi solo e soltanto come eterno, stabile, ingenerato, infinito; ciò che di esso sappiamo e possiamo dire è che tale fondamento non viene dal non essere, ossia dal nulla; di esso, infatti, possiamo solo dire che “è e non è non essere”. Parmenide getta così il fondamento della costruzione che altri svilupperà, salendovi sopra: Platone, Aristotele, San Tommaso, e così via; ciascuno secondo il proprio particolare sguardo prospettico, ma tutti entro una medesima scuola di pensiero da taluni definita ‘realista’. Quanto a noi, ci mettiamo risolutamente fra gli alunni di una simile scuola, per proseguire nel discorso.
Sull’autorità di questi filosofi e delle loro indagini persuasive, possiamo infatti adesso trarre alcune considerazioni utili al discorso intorno all’origine dell’universo. Infatti, per implementare nella considerazione intorno all’origine dell’universo le conclusioni dell’insegnamento della fisica moderna, secondo le quali l’universo viene dal nulla, dovremo lasciarsi soccorrere e condurre sulla via di un pensiero percorribile dall’ontologia filosofica, scienza dell’essere secondo la quale è impossibile anche solo concepire qualche cosa come scaturente dal nulla: pertanto, se dal nulla qualcosa sembra venire all’esistenza con le proprie gambe, deve darsi un principio, trascendente la cosa, che la sorregge, poiché altrimenti quella non camminerebbe, né varcherebbe la soglia d’esser nulla. Ma dal momento che abbiamo visto come concepire il nulla assoluto, quale origine del cosmo, sia via impercorribile, non ci resta che considerare quel nulla da cui l’universo sarebbe sorto, nient’altro che la condizione relativa all’inesistenza attuale della creatura, in quanto ancora increata e pur presente nel principio creatore quale sua eterna idea. Una nullità, dunque, relativa alla condizione universale di esistenza in quanto non ancora assoggettata alla natura creaturale che le è propria; pure, benché non ancora conferita, presente nella progettualità divina quale increata sua idea. Allora, fintanto che la manifestazione universale non è ancora separata dall’increata idea, per esistere quale creazione universale, essa permane nel proprio non esser ancora creatura presso il pensiero increato, nel principio eterno del suo concepimento.
Entro tale concezione soltanto è ben possibile contemperare così le due evidenze: quelle tratte dallo studio fisico delle masse e delle energie, le quali riconducono ogni espansione universale a un momento sorgivo di inizio, affermandone implicitamente la natura creaturale; nonché quelle che scaturiscono dall’indagine filosofica della realtà, le quali ci obbligano a percorrere la via della verità, secondo cui dal nulla non può sorgere da sé alcuna cosa. E pertanto: se entrambe le conclusioni sono contemporaneamente vere, come sembra, siamo obbligati a ritenere, per conclusione, che tutto ciò che esiste, in quanto universo, è creatura; che in quanto creatura ha un inizio; che ciò che che la sottrae dal nulla di sé all’inizio creaturale è un eterno principio, ossia quella natura ingenerata, senza inizio e senza fine, che è, semplicemente, ma non esiste, in quanto l’esistenza può predicarsi solo delle nature create, non di quelle increate.

Kairòs, il tempo propizio

Chiamiamo quel lasso di tempo che è concesso alla creatura individuata per esistere il suo giorno, o l’ora, per alludere al fatto che il tempo destinatole dal creatore è definito e non illimitato. Un termine in prestito dal greco, kairòs, traduce questa particolare concezione del tempo concepita dal pensiero greco, che ne scandisce il decorso non come in linea retta, ma concependolo, piuttosto, come il “momento propizio” per il manifestarsi dell’azione divina. Nei vangeli, analogamente, troviamo sovente il tema dell’ “ora” secondo l’accezione detta: essa segnala non tanto l’ora d’orologio, ma il luogo e il tempo dell’agire di Dio, e pertanto anche una svolta per gli eventi della storia.
Utilizzando questi riferimenti, vogliamo adesso significare il tempo dell’esistenza proprio come kairòs. Concepire il tempo come luogo per l’epifania del divino, rischiara meglio il senso di un cosmo, ossia di un ordine universale, creato non per funzionare simile a un meccano di cui il divino artefice non si cura, secondo l’intendimento aristotelico, ma proteso piuttosto verso la manifestazione della gloria del suo autore attraverso il suo avvento: tale, in effetti, è quanto è dato contemplare nel mistero dell’incarnazione del logos increato, dove natura increata e creata vengono riunite e riconciliate nella medesima persona di Dio in Cristo. Un mistero che non si esaurisce nell’evento dell’incarnazione, ma che attende ancora il suo disvelamento nel mistero della seconda venuta e del giudizio universale, “giorno” verso il quale la creazione si protende come in gemito di partoriente,  secondo le parole audaci ed ispirate di san Paolo. Nel giudizio saranno infatti rivelati, secondo la rivelazione, i figli di Dio e quelli della perdizione.
Entro quest’ottica, vediamo come il cosmo e la storia universale siano kairòs, tempo propizio e scenario di preparazione per la manifestazione di un disegno divino.
Entro tal disegno ogni creatura, dalla più infinitesimale (onde, particelle, atomi) alle più complesse (animali, uomini, spiriti), occupa un posto e viene destinata ad esistere secondo una particolare funzione di servizio al disegno globale presente nella mente divina. L’adesione a questo piano può esser libera, negli esseri senzienti, o necessitata, in quelli irragionevoli, come gli animali, od inanimati, come le pietre. Ciò condurrà il discorso a sondare meglio l’ambito di tale libertà (nell’obbedienza) o (di obbedienza nella) necessità.

Note

1

L’intersecarsi dei due piani, ontologicamente differenti secondo le rispettive nature, si è compiuto con l’avvento di Cristo nel creato: l’increato creatore, nascendo dal grembo della Vergine Maria, ha voluto farsi creatura per visitare l’opera sua, redimerla e ricapitolarla in sé; il cosmo ha così veduto il volto personale del suo eterno ideatore, apparso in forma umana. Eternità e tempo, increato e creato si sono trovati perfettamente uniti in Cristo Gesù, ad un tempo persona di Dio creatore, nonché vera creatura, secondo la complessione psichica e biologica umana. Per questa ragione il tempo della storia umana, ancora oggi, si conta a partire da quell’evento: perché da allora il cosmo è entrato nel tempo propizio (καιρός) in cui ci troviamo: l’evento della nascita di Cristo inaugura un’era di grazia nel nome di Gesù, che in ebraico significa « Dio salva »; le porte della vita increata, prima occluse agli uomini a causa del traviamento, vengono riaperte e quasi spalancate dal suo insegnamento e martirio.

 

2

La tesi che accomuna queste visioni consiste nel ridurre la realtà delle cose, e dunque anche delle nature, increata e creata, ad unità indistinta (Deus, sive natura). Entro questa visione, che accomuna invero buona parte del sentire filosofico di certa speculazione arcaica, moderna e contemporanea, i percorsi possibili variano da un secco determinismo materialista (atomismo, positivismo) a concezioni panteistiche della natura (idealismo, olismo), che tendono a negare, o a trascurare, la concezione creaturale dell’esistenza. Proprio la creaturalità che ci accomuna, tuttavia, come visto nel precedente intervento (Teologia della natura), è ciò che permette a tutte noi creature di distinguerci dal creatore comune, conoscendoci e conoscendolo in tal modo, nonché di stringerci gli uni gli altri in quella amicizia contemplativa, che si radica sul primo grado di osservanza del secondo precetto divino dell’amore, capace di renderci autenticamente prossimi gli uni agli altri nella considerazione dell’identità di natura che ci accomuna in quanto tutti oggetti di una creazione e dunque intimamente prossimi per la medesima natura che ci è propria.

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