«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Appunti sulla logica divina, Economia e grazia, Questioni di diritto il 1 febbraio 2019

di Giovanni Traverso

La carità quale norma fondamentale ed altre considerazioni

La prosperità e il benessere sociale si legano a doppio filo alle finalità che la politica detta e individua.
Tanto le prospettiva di crescita, quanto le riflessioni sugli assestamenti o recessioni dell’economia non possono prescindere tuttavia, a meno di voler formare masse ipnotizzate al mero dato economico, dal considerare la natura propria di quella nobile pianta che è l’uomo, sottomesso al servizio di un’economia che dovrebbe servirci e non servirsi di noi per fini propri, privati, settoriali.
Tal pianta (e tale economia) abbisogna, per poter appunto crescere e prosperare, del maturo riconoscimento di quei diritti che provengono ad ognuno per costituzione naturale da parte del creatore, riconoscendo i quali, ne conseguirebbero doveri certi da parte delle istituzioni, finalizzati a tutelare, più che interessi di settore, il bene comune a tutte le persone.
In questo articolo fermiamo la riflessione su alcuni di questi diritti trascendenti: quelli che scaturiscono in capo al creatore direttamente dall’opera della creazione, e quelli che, derivanti da successione, vengono trasferiti in capo alle creature dall’opera della redenzione operata da Cristo attraverso il nuovo lascito testamentario. Tali riflessioni ci porteranno a considerare la carità quale norma fondamentale di una società veramente retta e libera.
A conclusione dello studio, riflessioni sull’opportunità di introdurre emissioni parallele del credito, in concorrenza alle ingiustificate prerogative di un sistema bancario centrale che si caratterizza per essere l’ultima istituzione che opera in regime di monopolio (in qualità di monopolista della moneta) in un sistema architettato sulla concorrenza.

Il tempo dei mercanti.

Il mondo in cui ci troviamo a vivere si contraddistingue rispetto ad altri tempi per un particolare ossimoro. Lo stato della tecnica, da una parte, che ha raggiunto vertici ineguagliati; la condizione spirituale dell’uomo, dall’altra, forse più che mai schiava dell’ottundimento generale provocato dal sorgere in contemporanea di un’ idolatria dai molti nomi e dalle molte facce. Un millennio dai fortissimi contrasti, dalle ancor più accese disuguaglianze, quello in cui ci siamo incamminati. Spadroneggia fra tutte una voce senza volto e senza persona che, mirabilmente, riesce a mettere tutti sotto silenzio: quella del mercato. Entità impersonale, senza volto, senza tradizione, esso assomma e incorpora assai bene i valori cari al nostro tempo: i valori monetari, gli unici capaci ancora di destare un qualche vivace dibattito, in pubblico e in privato. Il capitale privato e sociale è diventato il protagonista di vertice della scena globale. Dovunque si trovi un uomo o un’istituzione, ivi si discute di bilancio. La moneta ha il pregio di incorporare le speranze, le attese e gli sforzi di tutti. Entro le mura domestiche della famiglia, si parlerà di voci di spesa, uscite e entrate in ordine all’acquisto dei beni primari e di qualche bene voluttuario. Entro i confini dello Stato, il discorso animerà i partiti opposti fra loro, circa la modalità di impiego delle risorse correnti per le spese di bilancio previste per l’anno venturo. Nel consessi internazionali si opterà per una qualche sanzione a danno di una qualche potenza commerciale, per poter svolgere migliori affari nel mutato regime, trovandosi contro una serie di stati, i cui affari sono lì già ben tutelati, e che pertanto dissentiranno a che la situazione si sblocchi o cambi.
Il dibattito culturale ruota intorno alle prospettive di “crescita” macroeconomica del reddito, commisurato sulle voci del prodotto interno lordo (pil), del deficit di bilancio, ossia dell’avanzo o disavanzo fra entrate e uscite da parte del settore pubblico, del tasso d’interesse bancario e delle politiche monetarie della banca centrale europea (in Europa) o della Fed (negli Stati Uniti), nonché dei punti percentuali che segnano il divario fra interessi garantiti ai creditori del debito pubblico nazionale e debito tedesco (“spread” è un termine tedesco che significa appunto “divario). L’ansia di profitto, o per meglio dire, il timore di recesso, campeggia quale indice e vertice che raccoglie le tensioni del pubblico dibattito. Le speranze e i timori umani sono pertanto trainate dalle voci di crescita e da quelle di periodi di recessione, quale quello presente. Sui telegiornali i profeti del capitalismo finanziario (Bankitalia, Bce, Confindustria et similia) pongono “la crescita” quale obbiettivo primario della vita dei cittadini. Ma la crescita auspicata, purtroppo, coincide con il parallelo sgretolamento dei diritti sociali, delle tutele sul lavoro, della precarizzazione del vivere. Crescita vuol dire competizione; ma la competizione, per la riduzione dei “costi fissi” d’impresa, sacrifica i diritti dei lavoratori ad un salario dignitoso, a forme di tutela conquistate a duro prezzo, per conseguire quell’abbassamento del costo del lavoro, necessario alle imprese e alle multi nazionali per incrementare i propri guadagni.
Tale contesto, non è superfluo ricordarlo, non soltanto rende difficile il viver quotidiano, rendendo sempre più esclusivo l’accesso alla ricchezza e alle risorse comuni, ma è deprimente ed offensivo verso la dignità che ci lega in vincoli trascendenti alla nostra più alta speranza, alla nostra immensa ricchezza, al nostro vero bene: la verità di Dio, la dignità che ci rende suoi figli adottivi, eredi legittimi di un regno che già possiede fin d’ora terra e cieli con tutte le ricchezze che contengono. Fermiamo lo sguardo su questa consolante verità di fede. Tutto ciò che esiste è stato creato da Dio e noi siamo i suoi figli adottivi: dunque, tutto è già nostro. Ma se siamo così ricchi, perché allora preoccuparci del calo del Pil? Perché condividere le preoccupazioni degli industriali?  Perché saturare lo spazio pubblico con preoccupazioni da banchieri? Perché la cultura dovrà plagiarsi e intridersi commisurandosi alle considerazioni del tasso d’interesse tedesco, al divario fra questi e quello italiano? Questo avviene perché ogni potere storicamente informa di sé stesso l’oralità del tempo in cui esercita il proprio dominio. E questo che è il tempo del potere dei banchieri, delle grandi società private, dei fondi internazionali, non fa eccezione. Sta dunque a noi non lasciarci inviluppare nelle vacuità di certi dibattiti intrisi di false speranze, piegate a biechi interessi di parte, per riempire piuttosto il vuoto lasciato con parole fresche di vita, utili, salutari, meritevoli e convenienti. Si accendano i cristiani lumi, perché il Logos di Dio ha parlato. Non è l’increato creatore sceso fra noi incarnandosi? Non ha fatto lascito per quanti credono nel suo nome di un nuovo testamento, aperto il quale, alla fine dei tempi, scopriremo di essere gli eredi in universum ius di tutto ciò che appartiene a Dio? La storia, il mondo, i tempi sono pertanto al nostro servizio, se gli saremo fedeli. Tutto ciò che esiste ed è stato creato “bello”, tutto tranne il peccato, che è opera nostra, è dono di Dio per noi, se noi siamo dono per il prossimo. Sì, Dio ci ha fatto eredi, ci ha donato Se stesso e tutti i suoi beni; ora, per la Sua divina grazia, tutto è veramente nostro: la terra, i cieli e il futuro. Questa verità è di grande consolazione.

Per comprendere meglio quanto andiamo dicendo, per non lasciare l’impressione che tali argomenti siano astratti e rivestiti di carattere meramente consolatorio ma in fondo in fondo – qualcuno direbbe – poco tangibile, voglio introdurre un concetto giuridico che farà capire meglio quanto concreto invece sia il discorso fin qui esposto.

 


 

Dei modi di acquistare la proprietà: gli acquisti a titolo originario e dei diritti del creatore sull’opera creata.

La proprietà di un bene, insegna la giurisprudenza, si acquista in due modi: in modo originario, oppure derivandola da altri proprietari.

Alcuni esempi del primo tipo:

Un compositore crea una musica. Quella musica creata è di sua proprietà, proprio perché egli l’ha creata, trovandola nel suo ingegno. Nessuno potrà dire che quella musica non è di sua proprietà, a meno che egli non l’abbia scopiazzata da altri. Ma non è questo caso. Egli l’ha acquistata dunque – dice la dottrina – “a titolo originario”. Di quella musica potrà farci quello che vorrà: stamparla su spartito, farla suonare al teatro, venderla su internet. Tutti coloro che ne fruiranno, gli pagheranno un tributo, riconoscendo ad esempio che quella bella musica è sua, o pagando il biglietto per ascoltarla, o scaricando a pagamento dalla rete il file per godersela.

Ora, quando diciamo di essere figli adottivi di Dio, e che perciò tutto ciò che esiste è già in nostro possesso (anche se per ora, in modo velato, solo nella fede e nella speranza che riposa sul testamento nuovo apertosi alla morte di Dio Figlio), non diciamo qualcosa di astratto e dubitabile: Dio infatti, quale creatore del creato, ne è l’effettivo proprietario a titolo originario, cioè nel modo qui sopra esposto tramite l’esempio del compositore di musica.

Alla creazione dell’universo, la mente divina (Logos) rimirò nelle sue eterne idee l’ordine creato, simile a come un musicista trova una musica nel suo ingegno. Contemplandolo, poi lo fece, trovandolo infine “bello” (cf. Genesi 1,31). Nella bellezza (kalòs), si ricomprende la bontà e proporzione del cosmo, deputato ad esser luogo di vita, amato e contemplato con meraviglia e riconoscenza dalle creature. Purtroppo il peccato, che è come un velo davanti all’intelletto umano, impedisce tale riconoscenza. Ciò che importa, comunque, ai fini del presente discorso, è che fin dal principio, cioè dall’atto creativo, il poema universale, creato col fine di ospitare la vita, appartiene di diritto al Creatore per esserne Lui l’autore e dunque l’esclusivo proprietario a titolo originario. Il Creatore è così titolare legittimo di un diritto d’autore sul mondo concepito nel suo Logos, creato in vista di Lui, Cristo. Il Creatore stesso infatti, come sappiamo dal Vangelo, è venuto nel suo creato per insegnarci la vera via che giunge alla vita. Si è fatto simile ad uno scrittore che entra nel suo romanzo, per vivere accanto ai suoi protagonisti: noi, che siamo le Sue opere, le Sue creature, i protagonisti di quel poema universale, che egli ha scritto in nostro favore. Come Autore, egli gode perciò di tutti quei diritti che dal diritto d’autore discendono. Ad esempio, Egli ha il diritto morale alla paternità dell’opera, vale a dire ad esser riconosciuto quale “creatore” da parte dei fruitori del creato, cioè da noi, Sue creature razionali; ha il diritto di disporre e di godere inoltre della sua opera nel modo che Lui vuole, cosa che avviene in quanto la sua provvidenza conduce la storia universale secondo la divina volontà, tal per cui, dicono i santi: “Nulla avviene fuori dalla volontà di Dio”. E ciò verso il fine ultimo: la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo, il giudizio universale e la rivelazione dei figli di Dio.
Il cosmo, o libro della natura, porta dunque la firma del suo autore: lo spirito creatore. Libro della natura e libro della scrittura sono voci concordi di uno stesso autore, quel Dio che ha diritto sopra ogni cosa e persona creata per esserne lui l’autore; quel Dio la cui opera, fra le altre, siamo noi. Pertanto, chi si lasci condurre dallo spirito di Dio scoprirà con meraviglia e gradualmente di essere destinatario di una tensione creativa che si dispiega dagli albori, e che tutto ciò che è stato fatto, fu fatto per essere donato a noi, figli adottivi. Come? Questo fu possibile, nonostante il peccato che ostruisce la nostra “vista”, cioè occlude l’intelletto alle realtà che la fede rivela, in quanto si è compiuto un preciso atto giuridico che ci ha fatto tornare legittimari della sua eredità, dopo l’indegnità a succedere a causa del peccato delle origini: morto Cristo, perché noi potessimo vivere, si è aperto il testamento nuovo che trasferisce la titolarità di tutti i suoi beni e possessi agli eredi testamentari, a coloro cioè che fanno la volontà del Padre di Cristo imitandolo nella carità. E il trasferimento fu fatto a titolo “derivativo”, perché deriva da altri proprietari, cioè da Dio ai suoi figli; e con ciò siamo arrivati al secondo modo di acquisto della proprietà chiarificato dalla giurisprudenza, detto appunto a titolo derivativo.

 


 

Del testamento come modo d’acquisto della proprietà a titolo derivativo e della novità apportata dalla morte di Cristo a quanti gli obbediscono.

L’acquisto della proprietà a titolo derivativo prende il suo nome dal fatto che la proprietà di un bene deriva al nuovo proprietario dal fatto che il vecchio proprietario gliela trasferisce, e ciò può avvenire in due modi soltanto: per contratto o per successione mortis causa, ovvero tramite testamento.
Del primo modo, cioè tramite contratto, un esempio è il concessionario d’auto che firma un contratto di vendita col cliente: la proprietà dell’auto viene così trasferita, dietro pagamento del prezzo, da colui che l’aveva (la casa di produzione dell’auto o lo stesso concessionario) al cliente. Anche il cosiddetto “passaggio di proprietà”, quando si acquista un’auto usata, avviene tal modo: il proprietario dell’auto trasferisce al nuovo proprietario l’auto e il libretto, dietro pagamento del prezzo: l’auto adesso avrà un nuovo proprietario, e il bene sarà stato trasferito in sua proprietà in modo derivato.

Ora, con l’opera della redenzione del genere umano, il Signore Dio non ci ha trasferito i suoi beni eterni tramite contratto, bensì attraverso il lascito testamentario siglato alla morte del Figlio. Quando la Chiesa, convocata alla Domenica, il primo giorno della nuova creazione, l’ottavo giorno della Creazione, legge la Parola di Dio, in verità sta leggendo il suo Testamento. Abbiamo visto infatti che, oltre al contratto, il secondo modo di trasferire i beni ad altri in modo derivativo è mediante volontà testamentaria. Tale modo si perfeziona con la morte del testatore e l’accettazione della sua volontà testamentaria da parte dell’erede insignito. Ciò precisamente ha disposto Dio Figlio, incarnandosi e morendo: tramite il lascito testamentario, coloro che obbediscono alla Sua volontà, sintesi del testamento antico redatto in dieci comandamenti e suo perfezionamento tramite la nuova legge di libertà vissuta e proclamata da Cristo: “Amatevi fra voi, come vi ho amati io”. Questo Testamento nuovo viene letto, come in Roma arcaica, da un collegio di sacerdoti deputati per la lettura e la pubblicazione davanti al popolo dei testamenti redatti: la Curia odierna eredita infatti le funzioni dei comizi curiati operanti in Roma antica. Inoltre, il Testamento nuovo, letto dalla Curia Romana ai fedeli, e recante le disposizioni e volontà testamentarie del Signore, sottopone coloro che desiderano entrare nell’eredità disposta ad una condizione: saranno legittimati a succedere ai beni compresi nell’asse ereditario, il Paradiso, la vita eterna, quanti obbediranno ai comandamenti divini, quanti cioé si faranno imitatori di Cristo, il Signore. La sofferenza acquista dunque il suo senso decisivo: chi soffre le ingiustizie di questo mondo sopportando e amando con il cuore di Cristo, vedrà la sua pena trasformarsi in gioia, fino alla gloria del Paradiso.

Questo è dunque il modo scelto dal Signore incarnatosi e morto per noi al fine di trasmetterci i suoi beni eterni. Per questo noi cristiani festeggiamo il giorno dell’Esaltazione della Santa Croce, a settembre, e per l’occasione leggiamo che “la croce è la gloria di Cristo”: tramite quell’atto, la morte in croce, oltre a lasciarci intestato tutto ciò che esiste, egli ci ha donato ciò che aveva di più prezioso: sua Madre, la Madonna (“Figlio, questa è tua madre”) e lo Spirito Santo  sgorgato dal costato trafitto e aperto sulla croce. Se Cristo non fosse morto per noi in quel modo, senza il prezzo del sacrificio – pagato come fratello e uomo – non avrebbe potuto acquistarci la vita eterna, la quale richiedeva che qualcuno ci liberasse dal debito del peccato, che tutti obbligava, ma che nessuno, prima di Lui, era disposto a pagare. Questo discorso, di non facile e immediata comprensione, sarà affrontato meglio un’altra volta. Anticipo tuttavia che la chiave per comprenderlo, si trova in quell’istituto attraverso il quale, un tempo, un padre di famiglia, sottoposto a debiti, poteva vendre il proprio figlio per liberarsi dai debiti sociali. Tale istituto è antico, e risale al diritto arcaico romano. Vedremo a suo tempo in che modo il Padre se ne è servito, per liberarci dai debiti contratti col peccato attraverso l’alienazione del Figlio eterno suo, Gesù Cristo, dato in schiavitù al genere umano, al fine di liberarci dalle catene dell’ignoranza e del peccato.

Ma tornando al titolo per cui, quali figli adottivi di Dio, possiamo contentarci fin d’ora -nella fede e nella speranza- di essere nel possesso di tutte le cose, proprietari d’una ricchezza infinita che si riverbera in noi per la sua divina grazia, abbiamo compreso questo:

Atteso che Dio è il proprietario di tutto il creato, per titolo originario costituitosi all’atto della creazione, atteso che Dio Figlio, morendo, ha fatto eredi a titolo universale quanti fanno la sua volontà, ne consegue che chiunque fa la volontà di Dio è erede legittimo -ora solo nella speranza, ma perseverando nella realtà e nella gloria- di tutto ciò che Dio Figlio, morendo, risorgendo e salendo al Padre ha lasciato ai suoi figli: cioè il mondo, con tutto ciò che contiene, e la Chiesa con tutti i beni che amministra (i divini sacramenti). I figli del regno, di cui Cristo è Re di diritto, sono legittimi proprietari insomma di tutte le cose buone che esistono a vantaggio dell’uomo, tranne il peccato, ch’è piuttosto una soggezione e una schiavitù alle cose, più che non un loro possesso.

La dimostrazione che quanto sopra scritto è vero, ci viene dalla parola del Logos di Dio, Gesù Cristo, Signore della natura, Giudice della storia e Maestro del diritto, che al capitolo 17 secondo San Matteo, si trova a  rispondere se sia obbligo o meno pagare i tributi al potere temporale. Leggiamola:

24Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». 25Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». 26Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. 27Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te».

In questo passo il Cristo che, in quanto Dio, per le ragioni sopra esposte, è proprietario di tutto ciò che esiste, di conseguenza è anche Re (“rex” è colui che detiene il privato dominio della res, del bene pubblico), onde il suo diritto signoreggia sopra tutto e sopra tutti i regni temporali. Identificando se stesso quale autorità superiore cui non spetta, ovviamente, il pagamento di alcun tributo verso gli ordinamenti terreni (forse che Dio onnipotente, che tutto e tutti mantiene nell’esistenza, avrebbe debiti col fisco?), il Signore identifica al contempo i propri discepoli, cioè coloro che nel seguirlo fanno la sua volontà, quali “figli”, pertanto esenti dall’obbligo di contribuzione verso servitori subordinati all’amministrazione di un’entità locale, quale quella del tempio di Gerusalemme.

La gerarchia dell’ordinamento, in un sistema razionale, o “stato di diritto”, prevede infatti che colui che è posto al vertice dell’amministrazione, giurisdizione e autorità, non versi tributi ai livelli inferiori, quanto piuttosto riceva la contribuzione da questi, al fine di erogare servizi di pubblico rilievo, secondo i fini prestabiliti. Analogamente il passo ci suggerisce quella verità che andiamo dimostrando: se noi cristiani facciamo la volontà di Dio, siamo veramente suoi figli, e tutto ciò che è di Dio, nostro Padre, i suoi beni, il suo onore e la sua dignità, diventa anche nostro. Se dunque restiamo liberi da peccato, perché fermi nella verità che ci santifica, non siamo neppure soggetti a debiti e tributi verso alcun potere temporale, in quanto Dio, nostro Padre, è Signore e re sopra ogni ordinamento creato. Cristo sembra qui suggerire inoltre che, se veramente vi è vero tributo da “rendere”, secondo il principio di giustizia di “tribuere cuique suum” (dare a ciascuno ciò che gli spetta), questo spetterebbe proprio ai riscossori d’imposta darlo: spetta cioé ai rappresentanti e funzionari del pubblico potere rendere a Dio, il “tributo” di rendimento di grazie, lode e pubblico riconoscimento che a Cristo si deve in quanto è persona divina. Tradotto per noi oggi, 2019 dopo Cristo: dovrebbe essere il pubblico potere in ogni suo ordinamento terreno a dover riconoscere pubblicamente il proprio tributo di adorazione verso Dio, e ciò secondo la Parola: “Date a Dio quel che è di Dio”, ossia secondo il precetto della giustizia sopra ricordato. Riconoscerebbe Lui in tal modo quel diritto morale sopra esposto che il Creatore vanta sull’opera creata, avendo diritto di veder riconosciuta la paternità sull’opera del creato da parte delle creature, creature fra cui son comprese gli Stati mondani, i poteri temporali, insomma tutte le nazioni con i loro ordinamenti.

Perché allora i cittadini cristiani, quali figli di Dio, sono ancora soggetti al pagamento delle tasse e alla subordinazione ai poteri temporali, dal momento che sono i liberi figli di Dio? Perché Cristo, come mostra il brano evangelico sopra letto, ha fatto una scelta precisa, trattenendo per la nostra debolezza il rigore del diritto. Infatti, qui come in molti altri casi, il rigore del diritto, da parte di colui che ne è il Maestro, viene temperato con la considerazione che, trovandosi Egli ad operare ad un livello di scarsa comprensione quale è quello del potere amministrativo terreno (assai poco incline a considerare legittimi i diritti e le prerogative divine), a causa dell’infedeltà congenita presente nell’animo umano dovuta del peccato originale, il Cristo, anteponendo le ragioni della carità allo stretto e legittimo diritto, onde Lui e i suoi figli non dovrebbero essere soggetti ad imposta né a potere temporale alcuno, per non destare lo scandalo e l’incomprensione che traviserebbe il suo legittimo diritto per una “disobbedienza alla pubblica autorità”, preferisce segnare una via diversa per tutti, via che Lui calca per primo: quella dell’obbedienza al potere civile, nonostante tutti i diritti che spettano alla sua divina natura; quella dell’obbedienza alla logica di Dio, cioè alle ragioni della carità, quale norma fondamentale e superiore per l’agire nel mondo.

 


 

Riforma dei sistemi bancari centralizzati.

A questo punto, riallacciandoci al principio del discorso, resi edotti di tali verità tramite la meditazione della Parola di Dio, quanto realmente rileva per la vita del cittadino cristiano, conscio di queste cose, se lo sforzo nazionale verso la produzione difetta negativamente per il – 0,2 % del PIL rispetto al precedente semestre? La realtà è che, se gli uomini cercano la verità e hanno sete di giustizia, avranno bisogni primari più urgenti di quelli che li impiegano per un reddito da lavoro: oltre al bisogno di pane, infatti, sappiamo che la nostra anima e il nostro corpo hanno bisogno di via, verità e vita, d’abbeverarsi cioè alla fonte del vero sangue di Cristo, l’Eucaristia.

Al contrario, secondo certi miopi manovratori dell’interesse pubblico, ogni sforzo dovrebbe essere posto soltanto al servizio di una produzione che incrementi il profitto (di pochi) e moltiplichi le occasioni per farlo attraverso il lavoro (mal pagato) di molti. Ogni vita sarebbe così assoggettata a un ciclo economico iniquo. Non dobbiamo ascoltare questi uomini, dediti solo all’incremento e accumulo di ricchezze “volatili”, come vengono definite dagli addetti del settore finanziari, beni che presto lasceranno. Oziosi nello spirito, capaci solo di commisurare il valore delle persone al loro capitale di reddito, indicano mete vane per la nazione. Costoro sono monito di quanto più meschino e vergognoso offra il pubblico dibattito, già alquanto immodesto e carente.

Messa in pratica con fede, serietà ed organizzazione, la dottrina sociale della chiesa è invece lo strumento del diritto più adatto per ripristinare la giustizia, risollevare le sorti spirituali, morali ed economiche di ciascun cittadino, sfrondando l’empietà che si rinserra, fra l’altro, sotto i gangli di quelle leggi che hanno istituzionalizzato l’ingiustizia e la prevaricazione, lasciando i deboli preda dei famelici, cioè i poveri sempre più stritolati dai poteri economici maggiori.

Spicca su tali poteri, e ad oggi ha assunto rilievo politico, quello accordato in età moderna ad un ente particolare, la banca centrale.

La banca centrale, giuridicamente, è una società di società di capitali: una società i cui soci sono banche nazionali. Da ciò si evince il suo scopo, eminentemente economico e non sociale. Gli Stati, ad esempio, hanno come fine l’ordine sociale e il benessere dei propri cittadini. Non scopo solamente economico, dunque. La banca centrale, al contrario, ha scopo eminentemente economico. Ciò spiega, fra l’altro, perché tramite le sue politiche venne rafforzato nella nostra Costituzione (art.81) quel principio contabile tipico di ogni impresa economica: il pareggio di bilancio. Questo, nonostante la nostra Repubblica non abbia la natura e le finalità d’un impresa economica, ma sia bensì posta al servizio del bene sociale, comune a tutti i suoi cittadini.

Ora, le nostre leggi hanno reso queste particolari società di capitali, nate per favorire l’interesso privato del settore bancario ed oggi dotate di profilo pubblico, organi autonomi e indipendenti, regolatori a proprio piacimento dell’offerta monetaria, titolari per legge di forme di reiterata e consolidata (e appunto legittimata) appropriazione indebita di danaro pubblico. Ogni bancanota creata e domandata da parte del “mercato” – bisognoso di moneta per pagare stipendi, comprare beni, garantire servizi etc – presuppone una creazione fisica (o elettronica) di danaro: a questo provvede, in regime di monopolio, proprio la banca centrale. Pertanto: la banca centrale è l’ente responsabile, per legge, dell’offerta monetaria e della regolamentazione di quest’offerta sul mercato.

Si potrebbe ingenuamente pensare che l’ente deputato a creare la moneta non sia lo stesso che ne diventa proprietario. Verrebbe infatti da immaginare che proprietario della moneta creata dal lato dell’offerta dovrebbe essere qualunque cittadino lavoratore, quale che sia la sua veste -imprenditore, professionista, impiegato- che quella moneta domanda col proprio lavoro e mediante il quale il reddito nazionale (p.i.l.) cresce. Non è così: la banca centrale cede o presta ogni banconota che stampa, immettendola nel ciclo economico dopo averla auto-assegnata al proprio attivo di bilancio. Ecco come questo avviene.

Il danaro creato e stampato dalle banche centrali viene immesso nell’economia attraverso il passaggio dell’auto-assegnamento a titolo originario di quella che dapprima è mera “merce” di cartamoneta senza valore nominale; quella “merce”, posseduta dalla banca, acquisisce così il suo valore nominale, in seguito alla quale operazione può avvenire la cessione ed immissione nel circuito economico attraverso tre canali: il Tesoro (con cessione in cambio di titoli di Stato), il settore bancario (tramite prestiti al settore bancario privato) e, infine, il canale estero (tramite acquisto di valuta estera). Così, quella carta-moneta che prima era merce senza valore nominale, non appena viene venduta “magicamente” acquista il valore nominale corrispondente all’ingente  quantità di moneta emessa, valore che viene imputato all’attivo della Banca centrale: tanto è vero che essa poi riporta al passivo del bilancio (e quindi come spesa effettuata), ogni cessione di quel valore creato, auto-assegnatosi ed immesso nel circuito economico tramite i canali suddetti, cioé in contropartita di ingenti quantità di titoli del debito pubblico, valuta estera, prestiti al settore bancario privato ed altri acquisti. Ciò che è fondamentale comprendere è che si tratta di un falso passivo, non sostenuto cioè all’attivo dal frutto del lavoro, bensì da creazione e auto-assegnazione, a titolo originario, di enormi quantità di moneta nominale, che sedimentano in proprietà a un ente il cui scopo, peraltro, è meramente economico, e non solidale e sociale come quello che per Costituzione istituisce la nostra Repubblica. Si configura così in capo ad un ente societario, la cui organizzazione è imprenditoriale, la ragione costitutiva privata (S.p.a.) e il cui interesse non può dirsi pubblico, in quanto solo astrattamente persegue fini collegabili con l’interesse dei cittadini, un potere creditizio infinito non aggredibile da eventuali creditori (immettendo moneta a debito essa crea solo suoi debitori), né assoggettabile a procedure di fallimento (come può fallire chi può creare ed auto-assegnarsi moneta ad libitum?), nonché liberamente spendibile, senza alcun controllo esterno, per l’acquisto di titoli, ori, valuta estera, il cui acquisto avviene tramite cessione di crediti auto-intestati all’origine; un potere economico, infine, che non viene dal frutto del lavoro, ma che si auto-assegna i frutti del lavoro delle nazioni, attraverso il veleno dell’immissione a debito di titoli monetari artatamente auto-intestati all’origine (tramite la regola giuridica “possesso vale titolo”). Questi enti, fra l’altro, dettando autonomamente le politiche monetarie, in quanto portatrici di istanze capitalistiche di vertice, non si curano con le proprie scelte di depauperare il tessuto economico dei paesi cui fanno credito. Quel credito, infatti, avvelenato dal sistema dell’immissione di moneta a debito seguente all’acquisto di generose emissioni di titoli da parte degli stati per far fronte al fabbisogno di spesa pubblica al fine di coprire i servizi sociali erogati, conduce a spirali d’indebitamento portatrici di un sicuro malessere sociale, esasperante vieppiù il fenomeno della disoccupazione tramite la stretta al credito verso le imprese (credit crunch).

Bisogna togliere dunque, come altrove abbiamo scritto, il monopolio all’ultima monopolista del libero mercato: togliere la gestione della moneta alle banche centrali, e con essa il potere di auto-assegnarsi l’offerta di moneta. Bisogna altresì ideare un nuovo modello concorrente di immissione della moneta nel tessuto economico che faccia concorrenza, ad esempio tramite intestazione elettronica di valori monetari in proprietà ai cittadini nascituri, i quali sono il vero fine dell’economia, quali protagonisti futuri e a loro volta staffettisti della vita umana ai posteri.

Quale moneta sceglierebbero i cittadini fra una che sgorgasse loro in proprietà per diritto alla nascita, ed una che non appena nascono li indebita? Fra una moneta che si incrementasse ad ogni anno di vita e che i giovani potrebbero usare al compimento della maggiore età per i loro progetti di vita e studio e una moneta, quale è quella della banca centrale, che da giovani scarseggia, mentre da adulti strozza sotto il peso della grande usura?
Occorre dunque ideare ed organizzare un’emissione monetaria che si irradi dal livello locale ed entri in concorrenza con l’emissione europea, sulle basi del diritto sopra raffinato, ed in parte discusso ed acquisito.
Nessuno può dare un lavoro, se non ha i soldi per farlo. Ma se i soldi stanno perlopiù nelle riserve di una società di società iniqua, quale è quella del sistema bancario centrale, allora bisogna far concorrenza a tale sistema, per liberare i cittadini dalle morse di un debito fittiziamente costituitosi, perciò stesso inesigibile.

La dottrina sociale sarà per questo fine lo strumento proporzionato, il solo capace, per adesione alla costituzione naturale dell’uomo scritta dal suo artefice, di trasformare la politica purificandone i fini, di disporre il giusto mezzo per raggiungerli, e invertire così la rotta del cammino di ricerca da ciò che è esteriore, “volatile”, instabile, promessa di una “crescita” comunque penosa ed infelice, in quanto transeunte, verso la speranza di ciò è eterno, veritiero, intramontabile: la verità di Dio e la cittadinanza del cielo, bene e meta suprema dei popoli della terra.

Caro lettore, Dio ti benedica! Se hai qualcosa di pertinente da aggiungere, osservazioni critiche da muovere, o semplicemente desideri complimentarti con l' autore dello scritto, qui puoi farlo, purché con spirito costruttivo e carità fraterna. Grazie!

Commenti

Notificami
avatar
3000
wpDiscuz