«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Appunti sulla logica divina il 17 dicembre 2021

di Giovanni Traverso

L’arte, segno e richiamo alla necessità di trascendersi (IV)

Abbiamo configurato una sorta di parabola della coscienza umana, che dapprima si conosce e mette in gioco attraverso la rappresentazione di se: l’uomo, immortalando sulla carta, sulla tela, in musica o in verso, la propria condizione umana, in un certo qual modo ne prende al contempo le distanze, per potersi conoscere e contemplare da vicino. La tecnica artistica ne sublima le passioni, in quanto richiede tempo, studio, pensiero, certamente genio e talento, quantunque esercitati, provati e riprovati, fino ad ottenere quella sapienza artistica che è propria di chi ha raggiunto la giusta misura dell’arte che gli proviene dalla ripetizione e dal metodo. Così, quell’arte che nasceva come esigenza espressiva profonda, vocazione innata alla creatività, diventa lo strumento con cui l’uomo, come obbligato nel travaglio della sua operazione artistica a prendere il distacco da se e dall’opera sua, alla fine, da quell’opera che ha prodotto il suo travaglio artistico attende il riconoscimento della propria fama, indissolubilmente legato alla sua opera. (Tal che, fra l’altro, disconoscendo all’autore la parternità dell’opera da lui fatta, gli si renderebbe la più dolorosa delle ingiustizie; essendo perciò stesso un diritto morale tale riconoscimento da parte di tutti). Fra l’ artista e l’ opera s’instaura propriamente un rapporto d’amore oblativo, che però abbiamo visto poter essere solo unidirezionale: l’opera artistica -essendo muta- non risponde all’amore del suo autore; all’artista non resta che glorificarsi attingendo alla bellezza stessa di ciò che crea, partecipando della fama riflessa che investe l’opera del suo genio, provenendogli dalla celebrazione che ne ha fatto (se ne fa) la società degli uomini.
Ma ecco, dopo aver ottenuto il massimo dalle proprie possibilità artistiche, l’uomo e artista sente ancora inesausta la brama di completezza e di pieno raggiungimento della bellezza verso cui tende e verso la quale, appunto, ogni sua opera va in cerca ed è segno verso l’orizzonte di un perfezionamento -a mezzo d’arte- sempre più definitivo e completo. Onde, l’artista attende e riattende a nuove opere, senza mai trovare definitiva posa, se non nei limiti impostigli dalla natura stessa, che prima o dopo gli toglie ogni forza, e persino il genio onde egli risplendeva fra gli uomini, a seguito dell’avvenuta vecchiaia che lo divora. Ma ora, finché egli è in forze, per quanto pure egli scavi la materia, per renderla bella, espressiva, amabile, l’opera restituita dal suo genio non esaurisce mai definitivamente ciò verso cui egli tende: nessuna opera invero, tra quelle fatte, è capace di soddisfare completamente il suo istinto di perfezione, di calmarne le brame e tenerlo a riposo. Onde si leva e si rileva. Pure, l’artista onesto, si accorge che, per quanto grandi e belle possano essere le opere dell’ingegno umano (e veramente la storia ce ne ha consegnate di grandiose e sublimi), egli si trova circondato da ogni parte da opere più grandiose e perfette delle sue, quali sono quelle che egli contempla nelle forme create della natura, e ciò produce gli produce un intimo ed ulteriore sconcerto e stimolo verso la perfezione, che tuttavia non sembra potersi mai definitivamente afferrare.
Accade così che lo spirito dell’uomo, educato alla bellezza dall’arte, cominci a distaccarsene quasi come da un amore che lo abbia deluso: quasi si trattasse di una persona da cui tutto aspettava, ma che non ha corrisposto e restituito generosamente secondo le speranze. In questo ripiego spirituale, accade perfino che l’uomo cominci a detestare quelle stesse sue creazioni che prima amava. Non che detesti le opere in se stesse, ma la sua incapacità di trovare in esse appagamento pieno, gli suscita disamore.
A questo punto, due sono gli esiti possibili: o la comprensione che l’afflizione che gli proviene dall’arte, è essa stessa un gradino per trascendere se stesso, le proprie opere e tutte le cose, per incamminarsi con lo spirito verso la sorgente d’ogni perfezione; oppure il tedio, lo snervamento dello spirito fino alla consumazione di se.
Ma se imbocca la prima via, e aprendosi alla grazia divina si lascia afferrare come l’opera dall’artista suo sommo, ecco che egli incomincia il cammino del trapasso dall’amore per l’arte che lui ha prodotto, all’amore di se, in quanto opera creata ad arte dell’artista divino. E amandosi come opera di Dio, desidera porsi nella Sua divina grazia, acconsentendo alle operazioni divine che vogliono fare di lui -uomo- un capolavoro di somiglianza al proprio Creatore, ovvero una persona ripiena di tesori di grazia, di sapienza, di virtù e amabilità. La grazia divina, in tal modo, lo apre alla comprensione di essere egli stesso oggetto di attenzione da parte di un soggetto creatore, il quale lo ha condotto in vita, non per lasciarlo in balia di se stesso, ma per condurlo a grande perfezione. Egli sente così il richiamo alla santità, come autentico traguardo dell’arte, e gettato -per così dire- il pennello (o quantunque ritenuto da parte), si consegna anima e corpo al suo fattore. Che vi sia un artista divino, e che egli stesso possa divenirne oggetto d’arte per farvisi scolpire e modellare, egli ne ha prova attraverso la vita dei santi. Più di tutte le opere fatte da uomini, egli vede infatti nella testimonianza di costoro la perfetta unità di pensiero ed azione, quale nessuna opera d’arte umana ha mai potuto neppure avvicinare: ed infatti, egli capisce quella essere opera divina, la quale indirettamente gli rivela la reale presenza di Dio nell’universo delle creatura, come piena corrispondenza di esseri liberi al Dio che liberamente ci ha creati.
Per questa conoscenza, cioè la conoscenza di Dio per cui i Suoi santi restano accesi d’eterno amore e zelo di perfezione, egli getta via tutte quelle sue perle che credeva preziose, disprezzando le opere umane, di cui ora vede più chiaramente i limiti, per soddisfarsi solo e soltanto di quell’unica perla rara, l’opera spirituale che Dio vuole compiere in lui e mediante di lui. Per questo, quasi negletto a se e agli uomini, trincerandosi nella solitudine che cerca l’amicizia con Dio, egli si abbandona alle operazioni divine che il divino artista comincia allora ad imprimergli con veemenza riversandosi nell’anima sua, e attraverso i divini sacramenti che la Chiesa mette a disposizione si dispone alla conversione dei suoi abiti interiori ed esteriori. Mentre prima viveva il dono di se attraverso l’arte, ora apprende che egli può donare se stesso con grande perfezione attraverso l’opera di Dio sopra di se. Egli, accogliendo tutte le sue imperfezioni, non lo abbandona a se stesso, ma trasforma e riempie del suo santo spirito, sì da farne un secondo Cristo, o sue membra operanti sulla terra. Da uomo carnale che era, mettendosi nelle mani del suo divino artefice, egli raggiunge così in breve il traguardo della perfezione, cioè diventa un uomo spirituale, secondo Cristo, vero figlio della luce.
Ma che, se respingesse i tocchi della divina grazia, se continuamente chiudesse la saracinesca alle ispirazioni con cui il suo creatore suole visitarlo? Verosimilmente egli comincia a dibattersi nel malanimo, nel tedio, nella frustrazione che lo conduce alla misantropia e al pessimismo: ecco che ha imboccato la seconda via. La via dell’arte in cui infatti credeva, via di bellezza, gli si è infatti rivelata come sbarrata: oltre un certo limite, egli non vi può attingere né ricreare all’infinito. Vi sono molti esempi di grandi artisti e filosofi, i quali sprofondarono tanto dentro di se, senza peraltro accendersi d’anelito divino, che non riuscirono più ad uscire dallo sprofondamento del proprio ripiegamento in se stessi: il mondo parve allora un fantasma perduto per sempre; una tela d’ inganni odiosa e crudele. Nietzsche, Leopardi, Montale, ma ancor prima Virgilio, per citare nomi celebri. Essi conobbero le vette sublimi dell’arte -la loro propria arte- e fu proprio questa conoscenza ad impedirgli di tornare fra gli uomini: impossibilitati da una parte a risalire la china della normalità dalle profondità cui erano giunti per confondersi di nuovo con l’umile gregge umano; impossibilitati dall’altra ad andare più in alto, per i limiti connaturali allo spirito umano, che senza grazia divina non può né sa trascendere i limiti propri delle operazioni naturali. Essi, come innumerevoli altri, sono davanti ai nostri occhi gli infelici pioneri di una parabola artisticamente eccelsa, umanamente disperante. L’arte fu per essi consolazione e maledizione al tempo stesso. Per l’arte costoro volarono alto verso la conoscenza di se stessi: ed ecco, conoscendosi trovarono il proprio limite, la caducità. Per quanto poi attendessero a superare per voli d’ immagine o per concetti tale limite, sempre esso li teneva imprigionati. Quell’arte che libera l’uomo, può infatti anche relegarlo in una gabbia: una prigione più larga, certo più sofisticata, un limbo di elezione, dove non v’è altra consolazione però che un lucido morder le nebbie della propria inconsistenza. Un vero artista, lungi dal ritenersi qualcosa, conosce a fondo il proprio limite: arriva a toccarlo con mano, arriva a tastarlo più di ogni altro uomo. In lui l’ignoranza è sgrossata via, perché l’arte richiede studio e lo studio lo apre alla conoscenza: perciò egli si conosce più di ogni altro uomo; perciò egli sa chi è: ma quello che vede non è il migliore degli spettacoli; misero rispetto a quanto si era ripromesso, troppo poco appagante dinnanzi all’inestinguibile sete d’infinita verità che lo muove. E l’arte è certo in grado di restituire agli uomini una più autentica immagine della verità intorno a se stesso. Perché l’arte -se non è mossa da lucro- scava nell’uomo, per conoscerlo e darne una rappresentazione più prossima al reale: in verità, l’arte conosce l’uomo meglio di come egli comunemente si conosca senza di essa. L’arte indovina ciò che di universale vi è nell’uomo, ciò che gli è proprio in ogni tempo e luogo, laddove la mera cronaca degli eventi spesso neppure c’azzecca il particolare, riportando testimonianze pasticciate di eventi sconnessi, che non colgono l’ intimo filo, i visceri spirituali donde cui sorgono.
Come è possibile discutere di arte, davanti a tanto tappeto di macerie, fra tant’odio e violenze? Se ciò è ancora possibile, è perché, grazie a Gesù Cristo, vi è un’ arte che è capace di purificare tutto il male esistente ed esistito, tutto quello ancora possibile e a venire, per sublimarsi nel più pieno e fulgido splendore di bellezza e verità: è la santità redenta, l’ultimo e più grande dono del creatore alle sue creature, il solo capace di convogliare entro di se e sublimare veramente nella pura bellezza ogni sofferenza ed ingiustizia umana.
Dovremo in seguito occuparci preminentemente di quest’ arte, per capire in che cosa consista, quale sia il suo campo, la materia e il fine che prefigge.
Prima di questo però vi sono altre considerazioni da fare in merito all’arte naturale quale imitazione del creato, esposte le quali ci avviamo a tirare le conseguenze del discorso.

Caro lettore, Dio ti benedica! Se hai qualcosa di pertinente da aggiungere, osservazioni critiche da muovere, o semplicemente desideri complimentarti con l' autore dello scritto, qui puoi farlo, purché con spirito costruttivo e carità fraterna. Grazie!

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