«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Appunti sulla logica divina il 29 novembre 2021

di Giovanni Traverso

L’educazione artistica conduce alla visione della verità originale nell’essere umano (III)

La paideia contenuta nell’arte umana, quale imitazione delle nature create da Dio, è una scala che, se percorsa secondo gli indirizzi propri di una riflessione intorno alla verità dell’essere delle creature, quali opere d’arte scaturite e plasmate dall’intelletto divino (logos), conduce l’uomo a conoscersi e guardar se stesso e il prossimo quale opera d’arte, bisognosa pertanto di lasciarsi forgiare dal proprio sommo e divino artista per giungere a perfezione. In questa prospettiva, il discorso che riunisce teologia, arte e natura rischiara i rispettivi ambiti e conduce a un’indagine approfondita sulla cifra reale della natura umana donataci. La presente meditazione, proseguendo in questo sguardo, contribuisce a fornire una rilettura intorno alla realtà del peccato, intesa come sottrazione all’opera del proprio connaturale perfezionamento. Cos’è il peccato, infatti, se non l’allontanamento consapevole di una particolare opera d’arte, quella creata da Dio ragionevole, dalla sapienza e maestria del suo divino fattore? Ovvero, il sottrarsi della nostra coscienza all’opera del perfezionamento dello spirito creatore?

Abbiamo individuato così la differenza sostanziale fra l’ opera d’ arte divina e quella umana: se ogni opera d’ arte umana risente dei limiti propri del suo creatore, non possiede cioè quella autonomia e libertà di coscienza che è propria degli spiriti creati da Dio, non così il nostro essere umano, che quale opera divina plasmata ad immagine del suo creatore, possiede per natura e volontà divina una stilla di autonomia di pensiero che rassomigliandoci al comune creatore costituisce propriamente la ragione del nostro essere una persona.

Così, quale Dio è persona, anche la sua creatura più complessa, l’umana, ha natura di persona.

Al contrario, benché ogni opera artistica fatta da mani d’uomo sia personale, nessuna può vantare una natura umana che la rassomigli al suo artista creatore. L’uomo, che è donato di un qual certa signoria e diritto sulla materia, che plasma e ricrea ad imitazione del suo creatore, non ha alcuna signoria però sullo spirituale: perciò ha bisogno di Dio, che quale Signore, cioè perfetto conoscitore, creatore e dominatore degli spiriti tutti, solo sa e può educarlo e trasformarlo comunicandoci il suo santo Spirito, per farci divenire sempre più simili a Lui nella sua eterna natura: l’ amore.

Certo, un bel ritratto per esempio è spesso anche più significativo per l’arte con cui è stato fatto, di colui che viene effettivamente ritratto. Pensiamo alla “Gioconda”: nessuno può entrare in rapporto con la persona ivi ritratta, eppure tutti apprezzano l’ anima nell’opera. In essa si conosce però più il genio di Leonardo da Vinci, di quanto si possa dire di entrare in relazione con la persona umana lì specificamente ritratta, Monnalisa. Il quadro tace, e l’ arte che in esso parla non può esprimere che questo: una meravigliosa imitazione e ripresentazione della natura creata. Potremmo dire pertanto che, mentre l’arte divina è creatrice in senso stretto (ovvero emanazione dal nulla, nel senso inteso da san Tommaso d’Aquino, Summa th., I parte, Q.45 ), in quanto la ragione divina sottrae al nulla molteplici forme, armonizzandole universalmente secondo ordine, l’arte umana è sempre e solo rappresentativa di realtà create. Per essa l’ uomo si compiace di ripresentare secondo ordine, tecnica e gusto personale, un qualcosa di già dato, di già a suo tempo creato e plasmato dal creatore. Perciò -si deve credere- per secoli, quanto alla definizione più prossima al concetto di arte, nella tradizione artistica europea si è parlato di arte, quale imitazione della natura creata: l’ uomo ripresenta ciò che vede, non già creandolo dal nulla, ma disponendo la materia che trova e traendo esempio ed ispirazione dalla natura che lo circonda. Ne ripropone così schemi, modelli e forme servendosi delle più disparate materie: il gesso, la creta, la grafite, il marmo, il legno, le tinte naturali, il pensiero (nel caso della scrittura), le risonanze acustiche (la musica)… Facendoci simili a sé, il nostro creatore ha perciò stesso inscritto in noi la vocazione alla creatività: ecco l’ arte! (Dunque Dio ci ha creati a sua immagine, e nel conferirci autonomia di coscienza, ci ha voluti quali piccoli creatori come è lui: ed ecco l’ arte che coltiviamo, creazione dello spirito umano per dono di grazia divina e a sua imitazione!).

Ma ecco anche la profonda differenza fra la sua opera e le nostre: non solo una differenza qualitativa, perché certamente le creazioni divine hanno tutte le perfezioni a loro possibili, mentre quelle umane non sono esenti da imperfezioni, se non altro per la loro corruttibilità. Parliamo qui, invece, di una differenza, quale abbiamo individuato, sostanziale: ogni uomo è un’opera d’ arte cosciente, a cui cioè è stato dato dal creatore il potere di conoscersi con il dono dell’intelletto e il potere di determinarsi con il dono della libertà che risiede nella volontà: ciò che intendiamo per coscienza. Così, mentre abbiamo visto esserci una relazione unilaterale fra l’uomo e le opere della sua arte, al contrario, fra il divino creatore e noi, sue creature, la relazione possibile fra l’artista e l’opera è bilaterale, allacciandosi fra entrambi i termini un rapporto da coscienza a coscienza: l’ artista divino si compiace dell’opera creata (Gn: “Vide che era bello”), dell’umana civiltà da lui fondata per essergli simile in ogni bontà, bellezza e perfezione; ma l’opera può a sua volta e – per quanto si lascia santificare dalla grazia divina – anela a conoscere sempre di più il proprio autore, nutrendo una sincera gratitudine d’esistere che rivolge a Lui, eminentemente, nella preghiera eucaristica del Signore Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio.

Laddove il dipinto non potrà mai rendere grazie al suo Caravaggio, l’ uomo può e dovrebbe ringraziare quel divino autore grazie al quale ciascuno è stato scritto nel libro della vita (cf. Mosé che dice al Signore: “Cancellami dal libro che Tu hai scritto!”, in Esodo 32:32). Nella misura in cui abbiamo riconosciuto di essere pagine scritte dal libro di Dio, ricambiamo il nostro creatore per la bontà d’averci pensati, creati, plasmati, educati e redenti. Questa relazione può venire meno, non già da parte dell’artista divino, la cui natura divina ha tutte le perfezioni d’un amore puro e senza macchia, che non viene mai meno nel rivolgersi alla propria creatura con quell’amore fedele che è la sua vita (cf. Gv: “Era la vita degli uomini”), quanto piuttosto da parte dell’opera, allor quando la nostra coscienza disconosca al creatore divino la sua virtù: averci amato, creato e vivificato; perdonato e, col suo amore, redento. Difettando di questo fondamentale riconoscimento, per ignorare la vera e felice causa della propria esistenza e di quella di tutte le cose, la persone finisce per trovare da sé le proprie ragioni di vita, o peggio, da persone cattive, comportandosi a tutti gli effetti qual debitrice di sé o di altri per tutte le vicende della propria esistenza e sorte. Di tutti, tranne di colui cui effettivamente deve il proprio debito d’amore: il Signore. Mancando così all’opera del proprio perfezionamento verso la felicità senza tramonto.
Avverrebbe così come se una tela, di fronte alla mano d’un esperto maestro pittore avesse la possibilità di spostarsi, fuggire e ritornare presso la sua mano, prima che l’opera fosse terminata. Che ne sarebbe di lei, quando fuggisse dopo le prime pennellate? Ella forse, per amor proprio, si crederebbe assai bella, ma tutti ne vedrebbero le mancanze. Così accade nella realtà che molte persone, dopo esser stati dei bravi bambini che aderivano alla messa e al Signore, durante l’ adolescenza, a causa di genitori a loro volta infedeli al proprio artista divino, fuggano via dalla Chiesa – l’ officina del nostro sommo artista – e mai più vi rientrino se non costretti da rispetti sociali, per presenziare al matrimonio di un loro amico, o il funerale di un altro, o il battesimo di un figlio etc. Ed intanto per tutti quegli anni si portano dietro quel poco di tratto divino che il loro creatore ha potuto imprimergli, ma più che altro pasticciandolo e annichilendolo coi loro abiti imperfetti e vizi che ne hanno gustato e sbiadito la rassomiglianza con l’originale del maestro a suo tempo abbozzata nel Battesimo. Quella povera tela, veramente mal assortita, allora spesso la si sente dire: “Guardate quanto sono bella! La mia bellezza è merito mio: io mi sono fatta da me! Ho un lavoro redditizio, degli amici e degli amanti che mi desiderano; una bella casa, una bella macchina, delle buone relazioni: sono proprio a posto”. Certo, tutte quelle cose le ha, ma per dono di Dio che la asseconda nonostante lei fugga di qua e di là, pur di non farsi completare secondo la sua divina prospettiva! Infatti Dio, ch’è buono come Dio e non come gli uomini, dona agli uomini nonostante la nostra ingratitudine. Così l’ “io” dell’ opera prevarica, trascura e si sostituisce all’ “io” dell’ artista divino, che più ella non pensa a riconoscere: perché se Dio non esiste per ella, allora non esisterà altri che il suo proprio “io”, e su quello solo in fondo ella potrà contare, di quello solo importare, orbitandovi costantemente attorno e dipendendo solo da se stessa e dai propri propositi e abiti viziati. Donde l’ infelicità.

Il peccato non fa che alimentare questo tipo di psicologia in noi, alterando la realtà, e invertendo meriti e parti. Senza la luce della fede, come accecati nelle nostre ragioni non comprendiamo più allora di aver abboccato e pienamente favorito la menzogna tentatrice descritta in Genesi, allor quando lo spirito impuro tenta l’ uomo alla disobbedienza con questa promessa: “mangiando del frutto dell’ albero proibito voi non morirete affatto, anzi, sarete come Dio!”.

Qual’è questo frutto, se non il peccato? E cosa comporta il mangiare se non il masticare e portare dentro di sé la cosa mangiata? Ora, mangiare il peccato, che cosa significa se non ammetterlo come buono, operarlo come lecito e con ciò farsi tutt’ uno con esso? Ma ecco: il peccato ci chiude alla conoscenza di Dio, e dunque di noi stessi quali sue opere. Masticando e ruminando il frutto del peccato noi non ci accorgiamo di continuare a perdere il rapporto di fiducia e gratitudine verso colui che ci ha creati.

Riconciliarci al creatore, significa riconoscere la verità per cui siamo stati fatti, e cominciare ad operare in essa e per essa.

Rompendo questo rapporto, viceversa, non resto che io, solo io. Certo, faccio tutto ciò che voglio: ma in definitiva faccio tutto da solo, la solitudine scava sempre più dentro il mio spirito, separandolo ancor più, non solo dal mio creatore, cui non credo, ma dai miei simili: essi sono altro da me, dunque contano solo nella misura in cui mi possono servire. Quale dio infelice divento allora per me stesso e per gli altri! Ecco perché il nostro creatore è venuto a lavarci i piedi: per farci comprendere che la nostra felicità consiste nel servire, più che nell’essere serviti, per trarci fuori dal questo isolamento esistenziale, prodotto del peccato, liberandoci nella sua verità, con l’obbedienza al volere del nostro creatore, il Padre, verso un rapporto d’ amore franco e leale con lui e con le persone a noi prossime.

Non è forse in quest’oblio la nostra infelicità? Nel voler ignorare d’esser creature divine, cioè persone fatte da lui e per lui, non è forse il compimento perfetto di quest’antica e sempre nuova tentazione, percorsa lungo millenni e millenni di storia ed oggi giunta ad un drammatico esito? Dietro al fasto di apparenti conquiste, non ci troviamo forse e ancora nudi davanti alla santità dell’amore che Dio ci chiede, quali immagini sue, affinché assecondiamo in noi la venuta del suo regno? Questa è la forza della parola che esce dalla bocca di Dio, dir la verità, indicar le cose per come stanno: essa ci rivela come, fuor di Gesù Cristo e dei suoi santi, l’ umanità non si sia mossa di un millimetro da Adamo ed Eva, nostri progenitori, dalla disobbedienza negatrice il creatore. Questo peccato delle origini, fra le indubbie conquiste nei costumi civili e nella tecnica, è oggi palpabile: ovunque si sente la sua voce. Un colpevole e metafisico travisamento della realtà porta l’uomo a ritenersi un dio, mentre continua a comportarsi come stolto e bestia.

Queste considerazioni ci permettono di comprendere più a fondo le ragioni dell’atteggiamento fedifrago della cultura dominante verso le proprie radici culturali, cristiane e pre-cristiane. Questa non riconosce l’uomo quale fine dell’arte fondamentalmente perché indisposta a conoscere Dio quale fine del nostro esser sue creature. Senso artistico e pietà religiosa educano l’ uomo a guardare verso l’ alto: laddove egli taglia i ponti con l’essere eterno e trascendente di Dio, scade la sua arte e i costumi si corrompono gravemente. Venendo meno all’alto senso cui l’ arte umana ha da sempre richiamato l uomo verso gli ideali di bellezza, di proporzione, di misura, essa ha smarrito il proprio senso e, come cieca, si dibatte in un’estetica che punta a lasciarci stupiti ed attoniti, in una risma reiterata di provocazioni, le quali tuttavia mancano sempre il proprio fine naturale, ricrearci, e quello educativo, elevarci al bello e al bene.

Negato il fine trascendente dell’uomo, l’arte umana non può trovarsi che piena di fraintendimenti circa lo scopo immanente ad ogni processo artistico, che non è mai fine a se stesso, quasi che l’uomo debba celebrare l’arte per l’arte, quanto piuttosto un fine favorevole all’uomo, non già a lui avverso come accade di vedere in tante brutalizzazioni artistiche odierne, le quali mancano di offrire all’uomo ciò di cui maggiormente ha bisogno: un alto mezzo educativo verso la comprensione di se stesso e del mondo; uno sguardo maturato nella considerazione approfondita delle realtà terrene, capace di acuire il senso della bellezza e così condurre a un più forte desiderio di verità, per essere più favorevolmente orientati ed aperti verso la bellezza da cui ogni bellezza scaturisce. Questo, è in sintesi, il compito dell’arte: l’ elevazione dell’uomo verso il bello e il buono, entrambi aspetti di una medesima realtà sorgiva, che l’ arte, quanto più è pura e sublime, tanto più sa incanalare entro di se e riversare nell’animo umano. Così, quelle realtà divine che a molti possono apparire come tappe forzose pedagogico-moralistiche di una chiesa negatrice dell’umana sete di bellezza, verità e autenticità, possono venirci invece incontro a coronamento della nostra maturazione intellettuale attraverso l’arte.

Caro lettore, Dio ti benedica! Se hai qualcosa di pertinente da aggiungere, osservazioni critiche da muovere, o semplicemente desideri complimentarti con l' autore dello scritto, qui puoi farlo, purché con spirito costruttivo e carità fraterna. Grazie!

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