«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Appunti sulla logica divina il 1 aprile 2020

di Giovanni Traverso

Teologia della natura

Meditazioni filosofiche sulla teologia della natura: natura creata ed increata; generazione dell’increato e del creato; conoscersi frutti dell’increato pensiero creatore; dell’unione perfetta fra l’increato e il creato in Cristo; della necessità del morire per entrare nella vita; della creaturalità comune e dell’amicizia che ne scaturisce come comandamento.

Natura increata e creata

Quand’anche non ci occupassimo della verità, noi siamo un pensato di quella. La quale, avendoci creati a propria somiglianza, ci ha perció dotati della facoltà di relazionarci (o meno) ad ella. La relazione nostra a lei e di lei a noi è tuttavia differente sul piano ontologico, poiché diverse sono le nostre nature. La natura della verità da cui noi siamo ideati e per cui esistiamo è increata, mentre la natura che ci permette di pensare alla verità e protenderci verso di lei è una natura creata. Queste due nature differiscono essenzialmente per questo: che la increata è la vita stessa (Gv 5,26), mentre la creata non ha la vita in sé, bensì riceve dalla vita increata la propria forma creata di vita, la quale, secondo l’ordine cui appartiene, è solo biologica, solo psichica o entrambe (2).

Generazione dell’increato e del creato

La vita increata era assolutamente libera di darci o meno l’esistenza creata. Noi creature, al contrario, dipendendo ed essendo condizionate da quella per la nostra esistenza, non abbiamo facoltà di darci né di creare l’esistenza altrui, potendo solo contribuire a generarla, procreando. Il vivente, ricevendo la propria forma di vita creata dall’increata, non può sceglierla da sé; può tuttavia procreare per via generativa altri da sé secondo la propria specie. La generazione di sé, rassomiglia in tal modo le creature al creatore sotto un primo aspetto. Anche la vita increata ed ingenerata, infatti, genera altri da sé. Tal somiglianza, tuttavia, manca essenzialmente in ciò: ché mentre la vita increata genera eternamente sé medesima, quella creata genera nel tempo un altro da sé della medesima specie, protraendo così l’esistenza della stessa nel perpetuarsi della generazione. Essendo infatti a ciò destinata dalla propria finitezza intrinseca, in quanto biologicamente destinata ad estinguersi, ogni vivente riceve dall’increata vita la facoltà di riprodurre la forma creata di sé secondo la specie cui appartiene, e ciò tramite seme. Per mezzo della potenza seminale, capace di generare un’immagine vivente di sé, in tal modo la specie prolunga l’immagine vivente di sé nel tempo, attuandosi entro generazione, ciò similmente al proprio creatore che, guardando in sé, ha creato ogni vivente assomigliandolo a sé, l’ingenerato, quantomeno nella capacità di generare.

Frutti dell’increato

Il discorso fin qui svolto sembra concordare con Osea:

Così dice il Signore: «Io sono come un cipresso sempre verde, il tuo frutto è opera mia» (Os, 14, 2-10)

Nell’immagine del «cipresso sempre verde» intendiamo l’inesauribilità di colui che afferma di essere la vita stessa, nonché la fonte perenne di ogni vita creata. Quanto al «frutto» della creatura, asserita opera del creatore, come dice, esso può intendersi in molteplici sensi utili, che in parte vediamo. Uno di essi è il seguente: il frutto biologico del vivente creato, derivante dal seme tramite il quale il vivente si moltiplica secondo la sua specie, opera secondo la volontà creatrice, ossia in accordo alla benedizione originaria che inaugura il popolamento del cosmo con le specie vegetale ed animale, abbracciandone ogni generazione susseguente (Gn 1,22). Il creato con le sue generazioni tramite seme si inaugura pertanto con una benedizione da parte dell’increato, benedizione che non viene mai meno. In altre parole, la vita increata è in se stessa benedizione inesauribile, la cui benedicente gioia di vivere si riverbera alla creata facendola esistere, generare e moltiplicare (4).
Ora, nel giardino creato dell’esistere, alla vita increata piacque piantare una creatura che le corrispondesse, per farla progredire di pienezza in pienezza fino alla piena contemplazione della propria meraviglia: quella creatura, oggetto di particolare elezione, siamo noi, donne e uomini.
Tra le creature biologiche, infatti, ciò che essenzialmente distingue la nostra specie animale da tutte le altre consiste nella facoltà di trascendersi, interrogarsi, volere, ragionare. In sintesi, di relazionarci in spirito e parola direttamente al comune creatore.
Altrove (5), abbiamo sottolineato la natura intrinsecamente spirituale della parola.
Ora, in un senso ulteriore, possiamo dire che, plasmandoci quali creature capaci di relazione, essendo ella stessa relazione fra persone, la verità ci ha infuso in natura la parola, e tramite essa la capacità di sviluppare ogni buona qualità sottesa al fine per cui ella ci ha plasmati col suo pensiero: per conoscerci suo frutto, contemplarla e raggiungerla. A lei pertanto appartiene sia il frutto del nostro esistere, che quello della molteplice virtù che ci sospinge verso di lei. Comprendiamo in tal modo una seconda ragione per la quale, secondo il profetizzare di Osea, il nostro frutto le appartenga.
Ella è infatti non soltanto il principio del nostro inizio, cioè dell’esistenza creaturale, ma anche il mezzo della maturazione verso la pienezza del nostro compimento in lei. Ella è dunque principio, mezzo e fine di tutte le cose create e di noi, creature umane, in particolare.
Parlandone come del mezzo, non siamo noi effettivamente a raggiungerla, poiché è lei piuttosto a donarci l’esistenza e prometterci la vita, come vedremo.
Parlandone come del principio, noi siamo in lei fin dall’eternità. E vi siamo in tal modo: come sua idea progettuale, in un modo non qualitativamente distinto da ciò che lei è. Come pure vedremo.
Parlandone come del fine, invece, era necessario che per conoscerla e conseguirla fossimo dapprima consegnati alla nostra creaturalità nella temporalità, ossia in quella natura che ci distingue da lei e ci è propria quali creature.

Conoscersi frutto dell’increato pensiero creatore

L’increato ci ha da sempre presenti in sé stesso come idea del suo spirito creatore. In tal senso, il nostro nome è inciso nella memoria dell’eterno. Per questo il profeta Geremia, fissando il proprio cuore nell’eterna vita, può ascoltare con stupore la parola divina, il cui spirito gli dice:

«Prima di plasmarti nel grembo materno, ti conosco» (6)(Ger 1,5)

Meditare tali cose ci rallegra: noi siamo presenti all’eternità e nell’eternità qui ed ora, poiché da sempre ella ci attende. Non siamo il frutto del caso. Ora, proprio perché concepiti dall’eternità nell’eternità, tanto più ora le siamo presenti e lei è presente in noi che esistiamo in grembo alla vita biologica e temporale. Così, qual principio d’ogni esistente, ella è per noi tutte creature simile alla madre partoriente d’ogni creata cosa, culla d’ogni esistente fin dal giorno del suo concepimento -essendone principio- ; ancora, ella è per noi, che siamo in crescita verso la conoscenza della sua pienezza, simile a un padre che, concependo un figlio, ha in sé l’idea di condurlo a maturità. Non dunque a un destino di morte, come sta scritto:

«Dio non ha fatto la morte, ma ogni cosa perché esistesse» (Sap 1,13-14)

E ancora:

«Non è il dio dei morti, ma dei viventi» (Mt 22,33)

Ora, l’idea coeterna al Padre, egli stesso vita increata, è il Figlio, colui che si è rivelato a noi come “via, verità e vita”, apparendo in forma umana: Gesù, il Cristo.

Via da percorrere per andare al Padre, vita increata, fonte della vita creata.

Verità da contemplare, per non errare e restare nell’ignoranza.

Vita increata che ci dona l’esistenza essendo egli stesso albero della vita; vita da imitare che si dona dall’albero della croce per redimerci dal peccare.

Come sappiamo infatti dal credo apostolico, egli è il generato eterno del Padre, non creato: ossia, l’increato stesso che ha preso forma umana.

Dell’unione perfetta fra l’increato e il creato in Cristo

Dunque la vita increata, del cui eterno pensiero siamo il frutto, ci ha creati per sé, plasmandoci nella temporalità al fine di condurci alla piena maturità in sé.
Ora, quanto al modo, il mezzo e la via per giungere alla nostra maturità ci è consegnata nel Cristo, il frutto scelto caduto fra noi dall’albero dell’eterna vita increata per l’unione mistica fra la più perfetta fra le creature e l’increata virtù divina.
Egli è dunque il terzo frutto, prodottosi dalle condizioni del particolare connubio, che la chiesa ci insegna a riverire, tra l’unione in pienezza dello spirito increato e la creatura più umile e perfetta mai esistita, la Vergine Maria. Come meglio indagheremo.

Della necessità del morire per entrare nella vita

«Se il chicco di grano cadendo a terra non muore, resta solo; se muore, porta molto frutto». (Gv 12,24)

La parola che la verità ci rivolge, relazionandosi a noi, ci indica un sentiero che non piace, né alletta a prima vista: la morte. Non una mera cessazione delle funzioni vitali: bensì, una morte fruttifera. Qual frutto ci può venire da una morte simile? Quello della vita. Sembra infatti che quella che chiamiamo “vita”, ossia la presente biologica, non sia che il momento transitorio di un innesto che ha da completarsi nel tronco della vita vera, l’increata.
Serviamoci a nostra volta di alcune immagini tratte dal mondo della silvicoltura per entrare nel significato di queste parabole.
Il ramo reciso di per sé non ha più vita, né produce frutto: se però viene innestato dall’agricoltore esperto in un tronco vivo, rinvigorisce e produce nuova vita e molto frutto. Questa non è opera del ramo, che da sé solo seccherebbe; bensì, è opera dell’agricoltore, il quale sa quando è il momento propizio per reciderlo e innestarlo nel tronco nuovo, affinché fruttifichi. Così, similmente è dell’ora della nostra morte: noi non sappiamo quando arrivi; ma sappiamo da colui che ci ha preparati che sarà un dolce innesto nell’albero della vita.
Ancora, il seme dell’ortaggio viene dapprima coltivato in un vasetto in luogo riparato e al riparo dal vento, affinché il germoglio uscito dalla terra possa divenire una pianticella diritta: solo allora viene messo in campo aperto per raccoglierne il frutto. Similmente, questo tempo in semenzaio, ovvero nella vita biologica presente, non è che il momento dell’attesa e della maturazione per essere trapiantati in campo aperto, cioè nella vita increata, principio di tutte le cose che per lei esistono. La nostra morte non segna il termine della vita, ma piuttosto l’inizio, come l’innesto ed il trapianto. L’opera della maturazione del seme a germoglio, nonché del germoglio a piantina pronta per il trapianto in campo aperto, non è affidata a noi, come sta scritto:

«Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa». (Mc 4,27-29)

Così, similmente a come lo sviluppo del seme a germoglio non pertiene al suo sforzo e merito, ma agisce come dall’intima natura che le è propria, anche il nostro sviluppo obbedisce a un dinamismo che non trova nella nostra coscienza e disponibilità attiva il termine ultimo. Questo perché il seme della nostra creaturalità, germogliata per l’increato e da quello irrigata, di quello necessita per giungere alla propria maturazione. Così, non trovando in se stessa il proprio fine, la natura creata si slancia e protende oltre se stessa, simile a un platano che protende al cielo i suoi rami per attingervi luce. Quest’inclinazione naturale tuttavia conosce molteplici resistenze che sogliono rallentarla o frenarla.

Della creaturalità comune e dell’amicizia che ne scaturisce come comandamento

Prima di chiarire meglio quest’ultimo punto sulle dette resistenze, fermiamoci ancora sul discorso intorno alla presa di coscienza della comune creaturalità. Essa a ben vedere accomuna non solo tutte le creature umane, bensì ogni realtà creata, ossia tutte le nature create d’ogni forma, ordine e specie: energie, particelle, atomi, molecole, gas, minerali, vegetali, animali, angeli e così via. La creaturalità ci raccoglie così entro una radicale e universale fratellanza, che ci accomuna entro vincoli solidali di considerazione vicendevole: poiché dall’incontro con l’altro, sia pure sotto l’aspetto di un umile sasso nel greto di un torrente, io non conoscerò semplicemente un altro diverso da me: ma un altro come me, laddove il nesso della nostra più vera compatibilità e prossimità ci è conferito dall’essere entrambi un’identità di nature create.
Tutti, pertanto, sotto questo aspetto della realtà, siamo adunati entro il segno dell’amicizia, per quell’autentica prossimità cui l’esistenza creaturale ci consegna.
Un passo del nuovo testamento  conferma questi rilievi: il Cristo, interrogato da uno scriba intorno al maggiore dei precetti divini, dopo aver chiarito il primo comandamento esser amare Dio con tutte le forze, afferma il secondo esser il seguente:

«Ama il prossimo come te stesso». (Mc 12, 28b-34)

Il termine della relazione cui il come introduce, ad un primo grado, ci viene offerto dalla creaturalità comune.
Per l’autorità radicale propria della fonte del precetto, che è l’increato stesso, ossia una natura assolutamente originaria, ineguagliabile, unica, cui ogni altra natura è sottoposta come al suo principio, non sarebbe sufficiente fermarsi ad un’interpretazione dello stesso in senso meramente altruistico, quasi che esso scaturirebbe dall’esigenza di imporci un dovere etico.
Se vuole trovarsi un’etica, dovrà trarsi piuttosto dalla contemplazione delle cose secondo la rispettiva natura.
In tal prospettiva, il precetto dell’amare il prossimo come noi stessi, si comprenderà, in primo luogo, alla luce della radicale identità  che ci accomuna in quanto ogni esistenza e tutto l’esistente è principiato di verità e dalla verità ciascuno riceve la propria specifica creaturalità, che l’accomuna e affratella ad ogni altra per medesima natura. Non è difficile, in tal modo, contemplare anche nell’oppositore la creatura di Dio, e per quanto possibile, amarla.
Un frammento di Eraclito di Efeso ci aiuta a cogliere il senso e la portata, lieta invero, di quanto stiamo affermando:

«I cani abbaiano contro ciò che non conoscono». (fr.97 Diels-Kranz)

L’opposizione del creato si sperimenta laddove nell’altro l’io non veda l’identico per natura creaturale, ma quasi un estraneo.
Viceversa, permanendo nella conoscenza del secondo precetto divino, ovvero nella contemplazione della creaturalità di tutte le cose, fatte simili a specchi vicendevoli dell’opera creatrice, è possibile permanere nell’amicizia vicendevole, e passeggiare per il creato con grande letizia, modestia, meraviglia e soddisfazione, avendo vinto il timore che viene dall’ignoranza.

Note

1

Nel vangelo secondo san Giovanni, al capitolo 5, versetto 26, si legge: «Come infatti il Padre ha la vita in sé stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in sé stesso».

2

La vita inestinguibile, che chiamiamo increata, crea l’esistente sotto il triplice aspetto dell’inorganico, dell’organico e dello psichico (ovvero spirituale nelle creature incorporee). Le creature infatti sembrano non conoscere che queste tre possibilità di esistenza. Tralasciando per il momento l’aspetto inorganico della creazione, nonché quello sulla natura dello spazio, su cui ci interrogheremo in seguito, in queste meditazioni ci soffermiamo a considerare la condizione creaturale dell’esistente in generale, in quanto tale natura è comune a tutte le forme dette.

3

Nel libro della Genesi, al capitolo 1, versetto 22, si legge: – Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra».

4

La vita increata è in sé stessa benedizione. Nel suo nome benedicente prende avvio il creato con le sue generazioni. La benedizione non maledice. In quanto benedizione, apre all’esistenza, dona di partecipare alla fonte della vita; in quanto verità, illumina anche le tenebre, rivelandone le opere (Gv 3,19-21). Ogni maledizione va compresa pertanto dialetticamente, quale frutto di un’opposizione radicale da parte del vivente creato alla vita increata e, in definitiva, anche a sé stesso e alla propria natura. E’ il rifiuto ostinato e inamovibile alla benedizione sorgiva ad auto-infliggere la creatura ragionevole, per la pena temporale che le deriva dalla volontà di errare e tenersi lontano da quella benedizione che è principio del suo esistere; allorché poi la creatura permanga nell’opposizione radicale fino al termine del tempo della scelta, la sua volontà si cristallizza come scelta per sempre, divenendo la sua pena eterna, eterna essendo la vita increata contro cui è presa.
Chi accoglie umilmente la propria condizione creaturale, invece, è destinato a partecipare in pienezza alla benedizione increata destinata ai figli adottivi generati nello spirito del Dio vivente, secondo ciò che si legge nel vangelo di Luca al capitolo 10, versetto 20: «Rallegratevi perché il vostro nome è scritto nel libro della vita».

5

Confronta l’Appendice, pp. 83 ss., di Contro gli idoli.

6

Il lettore che intenda il greco antico, o quantomeno la portata filosofica della nozione di epistéme, non potrà non apprezzare la valenza del verbo greco qui usato dalla Septuaginta (la versione greca dei testi biblici redatta nel III secolo avanti Cristo dai “settanta saggi”): Πρὸ τοῦ με πλάσαι σε ἐν κοιλίᾳ ἐπίσταμαί σε. Il testo greco, impiegando il verbo della conoscenza scientifica (epístamai), ci segnala la modalità del conoscere la creatura da parte del creatore con un termine difficile da rendersi in traduzione. Secondo il dizionario, epistéme «indicava inizialmente ogni conoscenza abilitante a compiere determinate attività o mestieri, e in seguito, più specificamente, l’aspetto rigoroso e teorico della conoscenza, in contrapposizione sia alla δόξα (opinione), sia alla ἐμπειρία (empirìa) che indicava solo la capacità operativa».
Usando il verbo della conoscenza teorica e scientifica più rigorosa, lo scrittore sacro ci offre la più forte evidenza di quanto andiamo affermando. Ogni creazione presuppone la scienza presso il suo inventore. Trattandosi dell’increato, è la scienza del pensiero creatore a plasmare le creature, ovvero quella conoscenza, teorica e perfetta, che precede e fonda la progettualità del nostro esistere, trovandosi nella mente dell’artefice d’ogni esistente quale sua idea. Ciò equivale a dire che ciascuno di noi, come ogni altra cosa creata, prima di esistere e per esistere, si trova eternamente ed attualmente nella mente divina, quale oggetto della sua scienza e sua eterna idea. Un “prima”, si badi, non da intendersi temporalmente, ma ontologicamente, ossia come nel suo principio. Ciò conferma san Giovanni apostolo nel prologo al vangelo, affermando che ogni cosa ebbe inizio dal suo pensiero, o logos: πάντα δῖ αὐτοῦ ἐγένετο, καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἑν (Gv 1,3).

Caro lettore, Dio ti benedica! Se hai qualcosa di pertinente da aggiungere, osservazioni critiche da muovere, o semplicemente desideri complimentarti con l' autore dello scritto, qui puoi farlo, purché con spirito costruttivo e carità fraterna. Grazie!

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