«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Questioni di diritto il 20 febbraio 2020

di Giovanni Traverso

Verità del diritto e diritto della verità

Pubblichiamo solo oggi, 20 febbraio 2020, il presente intervento, per intervenuti impegni.

La seguente meditazione, foriera di significati intrinsecamente politici per la nostra missione sociale, fissa lo sguardo sulla parola divina che abbiamo ascoltato durante la celebrazione del battesimo di nostro Signore Gesù Cristo, Domenica 12 gennaio 2020.

Cristo, maestro del diritto presso le nazioni

In essa, l’eterno Padre, per mezzo del profeta Isaia (cap.42, 1-4, 6-7), preannuncia il coeterno Figlio, come colui che “porterà il diritto alle nazioni”:

Ecco il mio servo che io sostengo,

il mio eletto di cui mi compiaccio.

Ho posto il mio spirito su di lui;

egli porterà il diritto alle nazioni.

Del “servo del Signore”, il Messia, l’eterno Padre dice che:

proclamerà il diritto con verità.

Non verrà meno e non si abbatterà,

finché non avrà stabilito il diritto sulla terra.

Di queste immagini, conserviamo una parola e focalizziamoci sopra di essa: diritto.

Qualunque cosa il diritto sia, il passo citato afferma tre cose al suo riguardo:

– che il diritto verrà (ed è stato) portato all’umanità dal “servo” di colui che annuncia la profezia;

– che il diritto verrà (ed è) proclamato con verità.

– che il servo di Dio che lo proclamerà (e l’ha proclamato) con verità non verrà (e non è venuto) meno, finché il diritto non sarà stabilito sopra tutta la terra.

Il diritto crocifisso dai dottori in legge

Per uno studioso del diritto le tre affermazioni di cui sopra non possono lasciare indifferenti, a meno che non si intenda -come invero i più intendono- negare alla parola la sua natura divina, trattandola alla stregua di suggestione, semplificazione, al limite ispirazione e comunque cosa umana; in ogni caso senza alcun fondamento di validità ed incidenza per l’ordinamento laico. La giustizia, si dice, è amministrata da uno “Stato laico”. Già: ma è laico anche il creato, o esso è piuttosto il frutto gratuito dell’amore santo di Dio? E cosa è più grande, lo Stato o il cosmo creato? Dunque, se lo Stato non è che un patto temporale fra noi uomini, in quanto noi siamo stati creati e dipendiamo da Dio abitando il Suo creato, il quale è molto più grande e ordinato che lo Stato, quest’ultimo, per ripristinare il giusto ordine delle cose, deve ricevere dall’ordine universale il suo fine e il suo senso appropriato, e non è titolato a sbarazzarsi di Dio e delle leggi da Lui poste per il bene, per far posto alle proprie inclinazioni mal poste, quasi che Dio non fosse il fine per cui tutte le cose sono state create. Se ciò avviene, diciamolo, è perché uomini senza timor di Dio han preso a governare e rovesciare il mondo, le leggi e i costumi, andando dietro a molti vani folleggiamenti, che del resto non tardano a emergere in tutta la loro misura di empietà. Non stupisce, pertanto, che nel quinquennio di studi accademici in giurisprudenza, mai una volta -davvero- si sia sollevata da parte della dottrina una domanda simile: forse che intorno alla questione della giustizia e del diritto Dio non abbia qualche cosa da dirci?
Un atteggiamento di pregiudiziale sfiducia nei confronti del divino su tale questione par denotare anzitutto questo: che la giustizia interessa non tanto in se stessa, quanto piuttosto come occasione di lucro personale e personale prestigio. La baracca del diritto positivo risuona boriosa come un bronzo senza vita, venendo amministrata e studiata dai più per lucro e competizione sociale, persino fra quanti la decantano per “passione”. Ci chiediamo se la decanterebbero ancora, qualora i vantaggi economici collegati alla professione e allo studio del diritto rasentassero quelli di chi produce e commercia il pane nelle botteghe e nei forni. Controprova ne sia che pochi trova assetati di giustizia la povera fonte del Cristo, da cui non promana né prestigio sociale né benessere, anzi, persecuzioni, incomprensioni varie e sovente perdita di prestigio sociale. La fame di giustizia assale invero i più negletti, nascosti ed umili fra noi. Quanto ai ricchi di ambizione, essa li trova inappetenti. La giustizia di Cristo, fuor di metafora, poiché fondata su una esigente quanto sobria autorità divina, non interessa ai gaudenti del secolo, né ai cattedratici di fini cecità. Essa in tal modo permane crocifissa, sdegnata proprio dai professionisti del diritto, crudeli verso se stessi e irriconoscenti verso ogni verità e perfezione del diritto che in Lui sovrabbondano.

Torniamo dunque alla profezia. Dio, per mezzo del profeta Isaia (VIII secolo avanti Cristo circa), preannuncia al mondo, molti secoli prima, la venuta del suo Messia, e con essa un fatto nuovo e inaudito: cioè che la verità del diritto verrà portata agli uomini da Cristo, cioè da Dio stesso, il figlio coeterno del Padre, venuto nella carne come “servo”. Il destino del diritto, quanto alla sua piena chiarificazione, stando alla profezia letta, viene indistricabilmente associato alla missione di Cristo, in modo tale che chi ritenesse, nel far ricerca, di prescindere da lui, non potrebbe che riferire intorno a un diritto ancora spurio.

Il diritto spurio

Il progredire giuridico, in effetti, secondo chi ne professa a livello accademico, si ritiene adeguarsi e aggiornarsi al mutare dei costumi sociali. Il suo sviluppo si coglierebbe prescindendo dalle ingombranti questioni etiche-religiose, parametrandosi ai continui fermenti che la società esprime, promuove e instaura col suo modo di essere, pensare, interagire e distinguersi in ogni fase storica. L’aggiornamento giurisprudenziale finirebbe così per essere un adeguamento della dottrina al dinamismo del corpo sociale, le cui istanze sono di volta in volta mutevoli (cf. G. Zagrebelsky, La virtù del dubbio, p. 46, Laterza 2007). Talché, per definire i termini di questa mobilità del fenomeno giuridico-sociale, lo si descrive nei termini di un “diritto vivente”, prodotto cangiante di tanti e tali mutamenti, di cui quelli giurisprudenziali (ossia i mutamenti di opinione da parte dei giudici intorno a questioni controverse) sarebbero appunto l’eco più manifesto. In quest’ottica, cifra essenziale del diritto sarebbe dunque la instabilità di base dei valori dell’organismo sociale, costantemente esposto ai movimenti tellurici della storia, permeabile alle istanze del momento, produttrice di un diritto sempre nuovo o rinnovabile, da costituirsi ed aggiornarsi inseguendo le novità del momento. La società, mobile e fluttuante, peregrinando tra diversi sistemi d’inquadramento giuridico dei fatti sociali, li disciplinerebbe in maniera di volta in volta differente a seconda delle sensibilità del tempo. Le questioni di diritto, da questa prospettiva d’indagine, sono così colte, analizzate dal versante della loro manifesta discontinuità: siccome nessun nucleo eidetico originario varrebbe a fondare i valori sociali, quelli riconosciuti preminenti -in quel dato tempo e contesto sociale- verrebbero salvaguardati per altre vie, proprie del diritto positivo, ad esempio tramite i giudizi di costituzionalità, cui le leggi nuove possono e talora debbono essere sottoposte.

Nell’accavallarsi degli ordinamenti, peraltro, anche la possibilità di fornire certe tutele primarie -il cd. nucleo dei principi inviolabili dell’ordinamento- si presta a notevoli interferenze da parte del diritto che si sviluppa sia in senso internazionalistico (il diritto internazionale) che comunitario (il diritto dell’Unione Europea). Proprio in questi ambiti si elaborano in seno alle commissioni di studio strategie varie volte a certificare la preminenza di un ordinamento sopra l’altro (il cd. “primato” del diritto dell’Ue), nonché a rendere talune disposizioni dell’ordinamento internazionale cogenti e inderogabili nei confronti del diritto nazionale degli Stati. Quel che talora viene fatto passare come sviluppo delle discipline, al vaglio della prassi si connota per essere invece una modalità diversa di instaurare e gestire rapporti di forza in chiave politica, strumentalizzando sia il diritto che i diritti per concretare posizioni di dominio e rendita, istituzionalmente fondate e giuridicamente vincolanti. A livello internazionale è prassi servirsi dei cd. “diritti umani” per scopi connessi al rafforzamento del prestigio internazionale, sia da parte di organizzazioni internazionali che, istituite a loro tutela e promozione, di fatto vi lucrano e vivono tramite l’attivismo delle ONG, oppure imponendo agende e programmi talora folli ai paesi in via di sviluppo (cf. Michel Schooyans, Evoluzioni demografiche tra falsi miti e verità); sia, ancora, da parte di Governi che si servono dei “diritti umani” per strumentalizzazioni volte al discredito di altri Stati loro avversi, in un’ottica di egemonia culturale e commerciale. In questo quadro, l’Onu e la sua Carta sono usati fino al punto in cui servono a fornire una parvenza di legittimità all’uso unilaterale della forza: gli Stati Uniti particolarmente, membri permanenti del Consiglio di sicurezza, raramente, in settant’anni di esistenza dell’organismo da loro fortemente voluto e fondato in seguito alla II guerra mondiale “per assicurare la pace fra le nazioni”, hanno rispettato l’iter previsto dalla procedura di sicurezza della Carta delle Nazioni Unite per realizzare i loro scopi. La Carta firmata per mantenere la pace oggi rappresenta poco più che carta straccia, per la quantità dei suoi abusi. Degli esiti di una politica dell’arroganza, del resto, vediamo chiari effetti: il recente assassinio internazionale nel gennaio del 2020 di un generale di Stato straniero, compiuto per il tramite di un lancio di missili sul territorio terzo di uno Stato già invaso, nel 2003, in spregio ad ogni procedura regolarmente autorizzata, rappresenta soltanto la conferma che il panorama internazionale, più che dal diritto, è retto dalla prepotenza e dall’arbitrio di pure volontà di potenza confliggenti le une con le altre. La terza guerra è già nel mondo -come sostiene Papa Francesco, “a pezzetti”- qual punto di arrivo di una traiettoria segnata. Lo scenario internazionale ci consegna in tal modo non tanto l’immagine di un “diritto vivente”, quanto piuttosto, quella di una carestia del diritto sulla terra, in vigenza della legge del più forte. Il richiamo della profezia, allora, si fa più evidente: urge quella stabilizzazione di un diritto proclamato con verità sopra tutta la terra, ovvero il suo rispetto.

Il diritto dei filosofi

Il problema è che se dalla cultura filosofica odierna nulla di stabile e originario viene riconosciuto sotto il profilo ontologico, il diritto non potrà che essere un’immagine cangiante dell’assenza di ogni fondamento, dando luogo all’antico diritto del più forte, oggi economicamente inteso. Ancora, se il più forte, in senso economico, avrà a cuore a che sia legittimata la perversione, il diritto si farà strumento non solo della forza economica, ma anche del vizio.  Non  importa quanto diritto e legge stridano o divergano: quella volontà che saprà farsi rispettare e imporre, diventerà “il diritto” cui tutti si dovranno uniformare. E cosa accadrà quando l’incanto della potenza che si vuole legge avrà i mezzi tecnologici e giuridici per imporsi a tutto l’orbe? E’ verosimile che si ripeterà ciò che si è già ripetuto molte volte, e di cui leggiamo in più parti nella Scrittura (cf.ad es. nel primo libro dei Maccabei la persecuzione dei Giudei promossa da Antioco IV Epifane), ma con un’intensità proporzionata all’apparato tecno-finanziario messo in campo. Contro di questo non ci resta che coltivare saggiamente il senso della verità, ancorandoci al reale che promana dall’eterna fonte. La filosofia del diritto, tuttavia, non ci aiuta. Anche in questo campo abbiamo visto come  l’indagine ontologica circa l’essere proprio delle cose, e del diritto in particolare, venga frettolosamente relegata a questione oziosa. Non soltanto ci si fa beffe dei  “filosofi del diritto”, ossia di quelli che, per non contentarsi di attendere alle cose serie, i contratti,  i cavilli, le clausole e le procedure, trovano il tempo di indugiare in riflessioni “poco pratiche” che -come ci assicurano i pratici della materia- “non serviranno”.  Ma, curiosamente, proprio i filosofi del diritto accreditano vieppiù , nei manuali di “filosofia del diritto”, la tesi di una sostanziale carenza di terreno stabile intorno ai principi e ai fatti del diritto: da qualunque parte lo si prenda, sotto il vaglio severo delle discipline filosofiche esso non sembra trovare in se stesso la forza di resistere e stare in piedi, come travolto da un relativismo imperante, quale unica opzione culturale seriamente percorribile dal punto di vista dell’analisi filosofica intorno ad esso. Eppure, proprio a tal riguardo, torna utile servirci di quell’argomento antico che sosteneva che: “se tu, cretese, sostieni che tutti i cretesi mentono, anche tu, che sei cretese, dimostri di essere bugiardo”. Similmente, a quel filosofo del diritto che ci vorrà introiettare l’opinione che “tutte le giustizie si basano sul nulla e sulla relatività dei concetti”, noi controbatteremo francamente: “Se tutte, dunque anche la tua”. Col che il relativismo giuridico è messo a tacere. Tuttavia, resta certo che nel panorama della giustizia coltivata per lucro e prestigio, la filosofia del reale è malvista, trovando spazio solo una qualche disciplina della decostruzione in senso nichilistico della nostra tradizione sapienziale, le cui origini sono elleniche, giudaico e cristiane.

Il diritto è di chi imita la pratica della giustizia

Dobbiamo disporci ad ascoltare testimoni di verità: anzi, il testimone della verità. Chi altri ha osato dire, infatti: “Io sono la verità”?

Il giudice più noto della storia umana, al tempo governatore della provincia giudaica per conto dell’impero romano, Ponzio Pilato,  si trovò un giorno a dover decidere intorno alla persona di colui che era, in se stesso, il diritto incarnato, il legislatore e giudice del cosmo creato. Lui, pover uomo, si trovava così, a sua insaputa (e benché avvertito da molti segni), di fronte al Dio della vita. Pilato, da cattivo giudice qual è ogni uomo, amante delle procedure e incline alla trascuratezza, raccolse informazioni sommarie, interrogando colui che riteneva essergli stato portato, se non ingiustamente, comunque per questioni oziose e non di sua competenza e giurisdizione, in quanto inerenti alla religione ebraica. Quel vero Dio che gli stava davanti, però, di fronte alle sue domande, benché già percosso e umiliato, rispose umilmente, offrendo testimonianza di persona che non parla per imporsi, ma col carisma del bene: 
«Io sono nato e sono venuto nel mondo per questo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Il giudice Pilato, dubbioso, rispose: «Che cosa è la verità?». Pilato, che aveva di fronte la verità e la giustizia in persona, si dimostrava scettico: “che cosa è la verità?”. Per Pilato, la verità era una cosa, non una persona: proprio davanti alla verità della giustizia di Dio in persona, che gli stava innanzi, egli dimostrava il potere (demoniaco) del dubbio, capace di dileguare il nostro contatto con le verità più essenziali della vita. Per il dubbio, Pilato, come molti uomini e donne fra noi, non attribuiva alla verità e alla giustizia la dimensione relazionale e personale. Egli dubitava, semplicemente, che la giustizia avesse a che fare con una questione di sostanza: una questione, dal cui riconoscimento, dipendeva la sua stessa vita, e il suo potere di riconoscere la fonte della vita. La sua preoccupazione rispetto alla giustizia da tributare fu anzitutto procedurale: competenza e giurisdizione; detto altrimenti, il modo più sicuro ed istituzionalizzato, tramite le forme codificate del diritto, di disbrigarsi dai propri uffici. La sua giustizia risultò così, al fine, viziata; quantomeno dalla fretta di lavarsene le mani. Il diritto, da lui praticato, si rivelò spurio: perché macchiato dal timore di cadere nelle mani dell’imperatore.
Ecco: attraverso Pilato, noi vediamo in controluce l’immagine del sistema giuridico che abbiamo creato con la nostra fondamentale ingiustizia: un diritto che, nella sua essenza, non è giusto, perché scarta proprio ciò che sta al cuore della giustizia, la carità. La carità, qual norma propulsiva fondamentale di tutto l’edificio giuridico, è la forza che vincola la giustizia al suo riferimento originario e trascendente, rapportandoci non tanto e non soltanto ad una cosa, ad un affare, ad un tornaconto di prestigio sociale o a strumento di mero guadagno, ma alla relazione fondamentale con la persona di Dio, in vista della quale possiamo realmente agire con giustizia verso il nostro prossimo, chiunque egli sia, povero o ricco, affine od estraneo, cliente o avversario in giudizio. La carità ricerca in Dio il bene della persona che mi sta dinnanzi, per la cui causa di giustizia sono obbligato a rivolgermi a una sapienza piena di quella vera prudenza che informa il diritto e che promana dalla carità nella verità. In Cristo noi contempliamo il giusto metro della giustizia, che nel suo agire non si parametra a rigidi formalismi, né flette verso lassismi paradigmatici, ma si sostanzia in ogni circostanza, soppesandola attentamente, dell’amore della verità. Prudenza giuridica e retta morale vengono per essa armonizzate fra loro verso l’agire perfetto; il vincolo della carità non coarta la natura, ma la eleva e perfeziona, sollecitandola virtuosamente a dare il meglio, purificandone le intenzioni, onde parole ed opere ne rivelano la potenza sanante. Fondandosi sulla relazione di verità fondamentale, quella con le persone divine del nostro Creatore, giudice e redentore, la carità presiede al retto esercizio di ogni giustizia, e pertanto non puó essere relegata a opzione secondaria, espressione dell’intima e privata e religiosità, poiché -al contrario- senza di essa l’edificio della giustizia manca del suo requisito primario. Per tali ragioni, prescindere dallo studio di Cristo, maestro del diritto, non è più semplicemente possibile per il giurista. Sforziamoci dunque di prendere sul serio, nel nostro studio, la parola profetica e giuridica da cui abbiamo preso avvio.

Il Vangelo del giurista

Comprendiamo ora più a fondo il significato della profezia. Chi di noi può affermare il diritto, se non chi è perfettamente giusto? Ma se Dio solo, ossia il Cristo, è il solo giusto, egli soltanto puó proclamarci il diritto con verità e autorevolezza. Questo sembrano testimoniare anche i contemporanei che lo videro all’opera, quando -come riportano i Vangeli:
“Erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava come uno che ha autorità; non come gli scribi”.
È bene comprendere che nella categoria degli “scribi” siamo noi giuristi, notai, giudici, magistrati e pratici del diritto. Allora, quanto a noi che siamo scribi ingiusti, vezzeggiandoci gli uni gli altri per mezzo di vanti accademici, immersi in un diritto spurio, perché non ascoltiamo il verbo della giustizia che promana dallo spirito e dall’opera di Dio? Siamo persuasi che servire il diritto significhi proclamarlo con verità, finch’esso non sia stabilito sulla terra? Siamo disposti a servire la causa della giustizia e non a servirci della giustizia per tornaconti personali? Se tale è il nostro intendimento, mettiamoci volentieri alla sequela di questa scuola di vero diritto, che il vangelo di Cristo ci comunica. Lasciamoci permeare dallo spirito di giustizia, non per esser migliori degli altri, ché anzi siamo intimamente persuasi della nostra deficienza sotto molti riguardi, ma al fine di prendere sul serio la vita che ci è stata donata, e la promessa di immortalità beata fatta da colui che afferma di essere ad un tempo Dio e il portatore del fuoco del diritto. 
Di fronte alla parola del legislatore dell’ordine universale, vogliamo così porci come giuristi: ci troviamo in effetti ad un testo fortemente connotato in senso giuridico. Leggendolo attentamente scopriamo che i canoni ivi impiegati ci sono familiari, avendoli imparati a distinguere nello studio delle istituzioni di diritto privato, del diritto internazionale, romano, pubblico, costituzionale. Tra questi concetti giuridici, a titolo esemplificativo, troviamo così: testamento, alleanza, remissione, mandato, confusione di creditore e debitore nella medesima persona, alienazione del figlio per debiti, e molti altri. Li vaglieremo uno ad uno.

Frattanto, a conferma della bontà di un tale intendimento, mentre guardiamo al testo sacro dei cristiani come a un testo giuridico, anzi, al testo giuridico per eccellenza, ci tocca rilevare quanto “il diritto vivente”, così come inteso in dottrina, mostri allo sguardo della nostra forse troppo vivace intelligenza giuridica, quasi connotati di fanciulla, forse graziosa un secolo prima, ma ad oggi emaciata nel volto, sconvolto, confuso. Di tal debolezza -quanto alla certezza e stabilità del diritto- sono ben consci, del resto, i suoi studiosi. Inerpicatisi fra le tortuose discipline che si dipanano per il tronco del diritto positivo, bene conoscono l’estrema farraginosità che (non) lega, sovente, i precetti gli uni agli altri, scatenando antinomie, incongruenze, emergenze interpretative, anacoluti giuridici e via dicendo. Il diritto positivo ctonio riflette invero, in tal modo, l’imperfezione e contraddizione dell’umana nutrice che lo vezzeggia, adopera, e in spasmodica vertigine creativa, vieppiù infittisce. In definitiva, esso pare simile a una gettata di miriadi di reti le une sopra alle altre, rotte e piene di mille buchi, con le quali, nonostante tutto, da ostinati pescatori, abbiamo inteso accalappiare tutti i fatti umani per ricondurli a fattispecie giustiziabili, sì da poter – in qualche maniera – dominare gli imprevisti e tenerci a bada gli uni gli altri. Un armamentario poderoso, quanto ingombrante e inutile: pratico per pescar poca giustizia e molta mala verità.
Se questo è il contesto, può darsi allora che le profezie sopra allegate, al fine di rischiarare l’obnubilato panorama intriso di una miriade di norme impazzite, possano calamitarci più che non deviarci dall’oggetto del nostro studio: cioè dal diritto.

Giustizia o legalità?

In altro studio siamo andati in cerca di quella che abbiamo visto essere la vera norma fondamentale del diritto, per esprimerci alla maniera di Kelsen, prescindendo però dai suoi errori interpretativi. Non è infatti possibile conoscere veramente cosa sia il diritto, se non ci si affanna nel cercare la fonte della sua validità e verità. Lungi dall’essere “questioni etico-religiose” a margine, esse interrogano il cuore del nostro oggetto di studio. Come visto, la profezia ci consegna un’affermazione molto netta, mettendo in relazione la missione del Cristo con l’esigenza di portare il diritto alle nazioni. Ma se deve portarlo, dobbiamo intendere che abbiamo a che fare, nel decorso della storia, con un diritto spurio, come sopra abbiamo evidenziato. Altro che “dottrina pura del diritto”, verrebbe da obbiettare. Siamo consapevoli di aver riempito il mondo di codici e i codici di leggi, che l’esserci svincolati dai dazi per riempirci di altro genere di capziosi paletti, segnala che siamo ancora nella vigenza di un diritto spurio, incerto, claudicante? Ebbene, il fermento legislativo non deve farci propendere per l’affermazione del trionfo dello stato di diritto. Il diritto odierno appaga -forse ancora- il palato di quanti lo parcellizzano, sia in termini economici che accademici, ma quanto al suo scopo primario, assicurare la giustizia, lascia perplessi addetti e non addetti: il mondo appare ancora un luogo pieno di ingiustizia. Ma al di là di tante problematiche che potremmo sottolineare, ve ne è una sostanziale, che si può comprendere osservando il paradosso del diritto positivo umano: chi anche osservasse tutte le leggi che esso impone, sarebbe forse il migliore fra i cittadini e contribuenti, ma non ancora “giusto”, secondo il metro della giustizia, fissato una volta per tutte dall’opera di Cristo nel mondo. Il diritto positivo, a ben vedere, ha troppo poco a che vedere con l’autentica giustizia, e assai più con il concetto derivato di legalità. Giustizia e legalità sono significati tangenti al diritto, ma non coincidono con esso. Facciamo un esempio. Un cittadino tedesco del 1938 avrebbe soddisfatto perfettamente i canoni della legalità, denunciando un concittadino ebreo, inosservante rispetto alle leggi razziali (positive) coeve per non aver ancora fatto un certo atto da quelle prescritto. Questa è legalità. Specularmente il giovane Giuseppe, promesso sposo di Maria, sarebbe stato ritenuto probo israelita nel denunciare apertamente la sua fidanzata promessa per adulterio, dal momento che egli la vedeva incinta, nonostante non avesse avuto rapporti con lei. Anche quella sarebbe stata legalità. Giuseppe, invece, non la denunciò, e pensò, al contrario, di ripudiarla in segreto per non esporla alla pubblica gogna. Questa è ció che il Vangelo intende per “giustizia”, e infatti Giuseppe viene definito “uomo giusto”.
Vediamo così come giustizia e legalità non coincidano affatto, ed anzi come la seconda, sovente, possa e debba talora esercitarsi a discapito della prima.
La giustizia, secondo la proclamazione fatta dal vangelo, che ci rapporta a Cristo stesso quale annunciatore per noi della verità del diritto, consiste anzitutto nell’osservanza della norma fondamentale della carità, la quale osservanza talora si disgiunge dall’esatta osservanza delle regole del precetto positivo. Poiché quest’ultimo è prodotto dell’uomo, in quanto l’uomo è incerto, la disciplina legale dei fatti sociali è talora molto imperfetta. Il giusto, peró, è colui che, fondandosi sulla legge e volontà di Dio, interpreta la norma umana anzitutto secondo il legame di carità voluto dal creatore. Il suo vaglio di legittimità trascendatale, per così dire, gli consente di applicare la norma fondamentale alla base dell’agire retto, superando con la carità le strettoie del diritto formale. Egli certamente presta anche obbedienza al precetto positivo umano, fintanto che questo non collida peró con la norma sorgiva del vero diritto: la carità, in obbedienza della quale è lecito, anzi doveroso, disobbedire il precetto positivo in quanto la contraddica. Il diritto positivo, in tal modo temperato nella sua asperità ed imperfezione claudicante, viene ricondotto alla giustizia, che -in definitiva- non è che obbedienza al precetto fondamentale di Dio, amare Dio sopra tutto e il prossimo come se stessi, amandoci cioé come il Cristo ci ha amati. Nei termini kelseniani, si tratta di un’applicazione perfetta della norma fondamentale del diritto, norma che è ad un tempo Legge (Logos) e Persona, la cui natura è divina, e perció eterna e stabile. Al contrario, la “dottrina pura del diritto”, per come elaborata da Kelsen, sotto questo riguardo, resta ancora dottrina impura ed imperfetta, in quanto priva di ogni certo aggancio alla sua trascendente validità.

Diritto e dottrina

Il versante del discorso sul quale abbiamo cominciato ad inerpicarci, peraltro, è pregiudizialmente occluso alla ricerca accademica, tutt’altro che incline, per esprimerci eufemisticamente, a confrontarsi -come dinnanzi ad un testo giuridico- con i proclami della parola divina. Nonostante tali testi, anche potentemente giuridici, annuncino -non c’è dubbio invero- la verità circa un fatto nuovo ed inaudito per la storia della giurisprudenza umana: ossia che tutta la pienezza del diritto si è incarnata in una persona, il Cristo, venuto sulla terra quale maestro del diritto per le nazioni.

Per conseguenza di un tale atteggiamento, diffuso e convinto a livello accademico, il diritto alla verità viene pregiudizialmente occluso proprio da parte di coloro che, per primi, dovrebbero studiarsi di attendere alla verità delle cose, piuttosto che non fare un mercimonio del faticoso oggetto del proprio studio. E’ paradossale, invece, vedere con quanta dedizione e dottrina, in ambito accademico e di universitas, ci si disponga ad aumentare le cattedre dietro le labirintiche traiettorie del diritto positivo, per esplorarne i tortuosi meandri, in cui le sue plurime branche ormai sovente si infossano, talora fino a ristagnare. Perché, piuttosto, non darsi decenza di istituire una cattedra di legittimazione per lo studio di colui che afferma di essere la fonte di tutte le nostre disquisizioni dottrinali, la fonte di ogni diritto? Proprio costui, al contrario, viene tacitato implicitamente, tramite la non considerazione accademica, proprio da coloro che si professano “Dottori della legge”. Corsi e ricorsi, si direbbe: il mondo non è avanzato di un passo. Proprio l’unico che ha qualche cosa da dirci di autorevole riguardo all’oggetto del nostro studio, viene silenziato, negletto e messo ai margini, come non contasse nulla. Ci viene incontro quella profezia che dice: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo”.
Questa pietra infatti è Cristo, il Vangelo la sua malta, la Chiesa il costruttore, il mondo e la sua redenzione la sua Opera. Ne aspettiamo fiduciosi il compimento.

 

Caro lettore, Dio ti benedica! Se hai qualcosa di pertinente da aggiungere, osservazioni critiche da muovere, o semplicemente desideri complimentarti con l' autore dello scritto, qui puoi farlo, purché con spirito costruttivo e carità fraterna. Grazie!

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