«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Il culto ragionevole il 20 marzo 2018

di Franco Lodi

Reliquie della passione

L’autore, con mirabile scrupolo storico ed erudizione d’antiquario, rintraccia e raccoglie davanti ai nostri occhi i frammenti che la storiografia consegna a materiale testimonianza circa la ragionevolezza del nostro culto. Provenienti dai materiali della croce e della passione sofferta, le reliquie della passione di Nostro Signore ci parlano dell’ingresso del creatore nella sua creazione, dell’autore della vita nella sua opera, di quanto “il Padre ha amato il mondo, tanto da dare l’unigenito figlio, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Mancano pochi giorni alla Settimana Santa, cuore ed essenza del Cristianesimo che ci porterà, sulle orme del cammino di sofferenza estrema del Cristo, alla Gioia senza limiti della Santa Pasqua. Nella settimana della Passione rivivremo i momenti cruciali del sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo. Ma oggi quali reliquie ci rimangono di quei giorni? Tutti conosciamo la reliquia più importante della cristianità, che è la Sacra Sindone, della quale tanto si è scritto e detto. Tuttavia relativamente pochi nel mondo sanno che a Roma si trova la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, nella quale è conservata la reliquia – che dà il nome al Santuario – costituita dai frammenti della Croce di Cristo, assieme al Titulus Crucis, ovvero l’iscrizione che secondo i Vangeli fu posta sulla croce. Presenti anche un Chiodo della Crocifissione, anch’esso rinvenuto, secondo la tradizione, da Sant’Elena e due spine, appartenenti, alla Corona posta sul capo di Gesù.

 

Sant’Elena ritrovò la croce, in circostanze miracolose, tra i rifiuti del Calvario: la tradizione vuole che la regina per riconoscere quale fosse il legno della vera croce fece stendere un paralitico sulle assi di legno trovate; quando il malato fu adagiato sul vero legno guarì e si alzò. La croce fu così portata a Roma, la presenza della Santa Croce a Roma è testimoniata già dal Medioevo quando i Papi durante le Via Crucis, fissavano la XII stazione della Via Crucis proprio a S. Croce, per andare ad adorare il Legno della vera Croce. Un’altra prova è fornita dai vari frammenti del Sacro Legno prelevati dalla Reliquia per essere donati dai Pontefici a personalità e santuari. Moltissime parti della croce sono state prelevate e inviate in tutte le chiese d’Europa. In Italia è facile trovare in una Chiesa del Duecento o del Trecento una piccolissima parte della croce. Insieme alla Croce Elena trovò i chiodi con i quali Gesù fu crocifisso: molti sono gli scritti degli storici, che ci testimoniano che Sant’Elena dopo il ritrovamento fece mettere un chiodo nel freno del cavallo di Costantino, un altro nell’elmo del figlio e il terzo lo portò con sé a Roma dove è anticamente annoverato tra le Reliquie Sessoriane.

 

La notissima scritta “I.N.R.I.” è conosciuta anche come “la reliquia del Titolo” o “Titulus Crucis” (NAZARINVS REX IVDAEORVM: “Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: Gesù il Nazareno, il re dei giudei.” – Vedi Gv. 19-19) la tavoletta di legno scritta in tre lingue, aramaico, greco e latino. Fu anch’essa portata a Roma. La professoressa Maria Luisa Rigato ha fatto recenti studi sull’autenticità della reliquia: la studiosa sostiene che il Titolo è intero e che l’iscrizione che si può vedere oggi è tale e quale a quella di duemila anni fa ed è perfettamente compatibile con quello che è scritto nei Vangeli. Peculiarità è che anche latino e greco sono scritti da destra a sinistra come l’aramaico. Evidentemente la persona che scrisse il titolo nelle tre lingue lo fece correttamente nella sua lingua, ma sbagliando il verso nelle altre. Questa è considerata un’altra prova dell’autenticità della reliquia.

All’interno della Basilica sono custodite anche due Spine provenienti dalla Corona che cinse il capo di Gesù“…intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo” (Mc 15/17). La reliquia della corona di spine, oggi è racchiusa in un contenitore circolare trasparente, e si trova a Parigi nella Cattedrale di Nôtre Dame. Molte delle spine furono disperse nei secoli, perché offerte in dono agli imperatori bizantini e a diversi re europei; ce ne sono una trentina sparse per l’Europa. Le più famose sono quelle di Bari, Andria e Napoli. Queste tre spine sono le più famose perché il Venerdì Santo di determinati anni le spine macchiate di sangue rosseggianoNel 1932 la spina di Napoli rinverdì, rosseggiò e fiori alle 15,00 (ora della morte del Signore).

Si sa per certo, da alcuni racconti dei primi secoli resi noti dai pellegrini che si recavano a Gerusalemme, che la Corona di spine si trovava tra le cosiddette “reliquie del Monte Sion”, luogo biblico dove sorgeva il palazzo di Caifa. Essa fu trasferita nel 1046 a Costantinopoli dove, nel 1238, l’imperatore Baldovino di Fiandra la impegnò presso i banchieri veneziani per superare le difficoltà economiche. Lo stesso Baldovino chiese a suo cugino Luigi IX re di Francia di riscattare la reliquia. Luigi IX accettò la proposta e per rendere omaggio alla preziosa reliquia, costruì la Saînte-Chapelle all’interno del suo palazzo di Parigi. Nel 1806, l’arcivescovo di Parigi la fece trasferire nella Cattedrale di Notre Dame, dove si trovano tuttora.

Un altro approfondimento particolare lo merita la reliquia del “Sudario di Gesù“che si conserva nella Cattedrale del San Salvatore di Oviedo (Spagna). Si tratta di un panno rettangolare di lino, di circa 53 per 86 centimetri, di composizione uguale a quello della Sindone per dimensione delle fibre, filatura e torcitura, a eccezione della trama, che è a ordito ortogonale mentre quella della Sindone è a spina di pesce. A occhio nudo sono visibili solo delle macchie di colore marroncino chiaro di varia intensità, rivelatesi come sangue umano; le analisi al microscopio hanno mostrato anche ulteriori macchie di sangue (alcune puntiformi) causati da piccoli corpi appuntiti, forse spine. Le fonti storiche mettono il sudario tradizionalmente in relazione con la Passione di Gesù. “Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in luogo a parte”. (Gv. 20/5-7)

La coincidenza più notevole è che le macchie sul Sudario hanno mostrato corrispondenza geometrica con quelle della Sindone, delle quali inoltre sono un poco più estese. L’impronta del naso, misurabile sia sulla Sindone che sul Sudario, risulta avere la medesima lunghezza di otto centimetri. Le indagini compiute hanno dimostrato che il sangue del Sudario di Oviedo appartiene al gruppo AB, comune in Medio Oriente ma raro in Europa, lo stesso rilevato per il sangue presente sulla Sindone.

Tutte le risultanze scientifiche sembrano dunque indirizzare verso la conclusione che il Sudario di Oviedo e la Sindone siano stati a contatto con la stessa persona. E questo avvenne in momenti ravvicinati ma diversi: certamente prima il Sudario rispetto alla Sindone, sia perché la maggiore ampiezza delle macchie presuppone un sangue più fluido, sia perché sul Sudario c’è solo il sangue ma non anche l’immagine negativa che invece appare sulla Sindone, dove sappiamo essersi formata in un momento successivo alle macchie di sangue. Tenendo conto di quanto si è potuto osservare, si è fatta dunque l’ipotesi che il Sudario di Oviedo possa essere il telo che servì, secondo l’usanza ebraica, a coprire il volto di Gesù nel trasporto dalla croce al sepolcro, ma che fu tolto dal volto prima che questo venisse ricoperto con la Sindone; e che, proprio perché intriso di sangue, dovette essere lasciato (secondo le prescrizioni funebri ebraiche) nel sepolcro.

Poi prese la coppa del vino, fece la preghiera di ringraziamento, la diede ai discepoli e disse: Bevetene tutti…” (Mt 26,27-28) La reliquia del Santo Calice è una coppa di agata finemente levigata fabbricata in Siria o in Egitto prima del I secolo. Il Calice fu portato a Roma da Pietro e utilizzato dai successivi Papi. Durante la persecuzione di Valeriano (258) il Papa Sisto II lo diede al suo diacono (San Lorenzo) che lo inviò nella sua città natale: Huesca. Durante l’invasione islamica fu trasferito sui Pirenei, dopo la riconquista cristiana fu trasferito prima nel monastero di San Giovanni della Pena, nel 1399 fu portato a Saragoza e nel 1437 nella Cattedrale di Valencia.

“I soldati che avevano crocifisso Gesù presero i suoi vestiti e ne fecero quattro parti, una per ciascuno. Poi presero la sua Tunica che era tessuta tutta d’un pezzo solo da cima a fondo e dissero: Non dividiamola, Tiriamo a sorte a chi tocca.” (Gv 19,23-24). I primi scritti che parlano della Tunica di Argenteuil risalgono al Cinquecento. Il Vescovo Gregorio di Tours scrive che alcune persone gli hanno raccontato di aver toccato la Tunica del Signore. Si riferisce dunque a un culto già stabilito ad una devozione popolare già instaurata e consolidata. Poi a parlarne è lo storico Fredegario nel 610 dove dichiara che la Tunica fu ritrovata a Giaffa, nella città dove Pietro era stato ospite di Simone il conciatore. Il ritrovamento avvenne grazie ad un altro Simone ebreo, che rivelò il luogo dove era nascosta. La tunica fu porta a Gerusalemme e poi a Costantinopoli. Nelle trattative del matrimonio tra l’imperatrice Irene e Carlo Magno, che poi non vide mai la luce, l’imperatrice donò a Carlo Magno delle reliquie importanti tra cui la tunica di Gesù. A sua volta questa tunica fu donata da Carlo Magno al monastero di Notre Dame d’Humilitè di Argenteuil. Durante le invasioni normanne, intorno all’830 la tunica viene nascosta dentro un cofanetto d’avorio e murata. Da allora se ne perdono le tracce. Nel 1150 durante i lavori di restauro la tunica viene ritrovata nel suo cofanetto d’avorio. La tunica però deve ancora passare il terribile periodo della rivoluzione francese. Nel 1791 la reliquia era passata alla chiesa parrocchiale, nel 1793 venne abolito il culto cattolicole chiese furono costrette a rimettere i loro beni ai comuni. Il Parroco Ozet per salvare la tunica dalla totale distruzione e poterne conservare almeno una parte, decise di tagliarla in vari pezzi. Nascose i pezzi più grandi sotto terra in due punti diversi dell’orto della sua canonica, alcuni pezzi più piccoli li diede a persone di sua fiducia. Uscito dal carcere nel 1795 il religioso dissotterra i due pezzi maggiori e ricerca i fedeli a cui aveva affidato gli altri piccoli pezzi. Purtroppo riuscì solo parzialmente nell’impresa perché alcune persone non vennero mai rintracciate. Le ricerche scientifiche hanno evidenziato che la stoffa è di origine orientale, la tessitura è avvenuta con un telaio primitivo che permette di tessere delle stoffe senza cucitura. Sono presenti numerose macchie di sangue, soprattutto nella schiena e nella spalla sinistra. Le macchie di sangue della tunica si sovrappongono perfettamente a quelle della Sindone di TorinoIl gruppo sanguigno è AB. Come per la Sindone è stata studiata la presenza di pollini. Sono stati raccolti 115 campioni derivanti da 18 piante diverse di cui alcune presenti in Medio Oriente due soltanto nella Palestina biblica che si ritrovano anche sulla Sindone e sul Sudario di Oviedo.

Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora…” (Mc. 15/16-17) La tunica di Treviri: i Vangeli ci dicono che sopra la tunica di Argenteuil a Gesù fu messo un mantello rosso. La definizione che abbiamo noi di mantello è diversa da quella usata ai tempi Gesù, per mantello loro intendevano un’altra tunica più grande. Infatti la tunica di Treviri è più grande di quella di Argentuil ed è di colore rosso. In questa non sono presenti tracce di sangue, perché non era a contatto con il corpo del Signore.

Un tale corse a prendere una spugna, la bagnò nell’aceto, la fissò in cima a una canna e cercava di far bere Gesù”. (Mc. 15,36) La traditio devozionale vuole che Longino, il miles romano che trafisse il costato del Nazareno, fu guarito dall’acqua e dal sangue usciti dal costato al contatto con i suoi occhi malati. Convertitosi al Cristianesimo giunse a Mantova nel 36 d.C., portando con sé la spugna che “dissetò” il Crocifisso morente e terriccio del Golgota intriso del suo Preziosissimo Sangue. Nel 37 subì il martirio (salirà agli onori dell’altare, canonizzato da Papa Benedetto XII) fu inumato presso lo «spedale dei pellegrini» (oggi basilica di S. Andrea) dove, in una cassetta di piombo, individuata dalla scritta «Jesu Christi Sanguis», aveva sotterrato le reliquie. Due date fondano il culto: 804 e 1048, corrispondenti rispettivamente al primo, casuale, ritrovamento, nell’orto dell’ospedale di Santa Maddalena (ossa di Longino e ampolle che lo stesso martire aveva occultato) e alla seconda (dopo che le reliquie furono nuovamente sepolte, nel timore di profanazioni barbariche) avvenuta con l’aiuto di un mendicante cieco, il Beato Adalberto, che ebbe una rivelazione dall’apostolo S. Andrea. Dopo diversi saccheggi nelle ampolle oggi rimane solo il terriccio, bagnato dal sangue di Cristo.

Attraverso questa insolita Via Crucis, rivissuta attraverso le reliquie a noi arrivate, auguro a tutti i lettori di poter incontrare sul cammino della loro vita Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, unica presenza capace di dare un senso a questa vita.

A tutti, i miei auguri di buona Pasqua!

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