«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Ecologia umana il 27 maggio 2021

di Giovanni Traverso

La liberalizzazione dell’impurità e le sue conseguenze

Questa riflessione trae spunto da una fatto di cronaca giudiziaria reso noto ai più: un tale, figlio di un noto politico italiano, avrebbe nella propria villa in Sardegna violentato coi suoi amici una coetanea, costringendola a rapporti sessuali di gruppo, approfittando del suo stato di ubriachezza indotta. A riprova dell’atto compiuto, vi sarebbero, fra l’altro, foto e video  in cui l’autore/gli autori dello stupro di gruppo immortalerebbe i propri genitali di fianco alla faccia della vittima in stato di ubriachezza o semi-incoscienza. Ci si domanda quali siano i presupposti della smisurata proliferazione di delitti sessuali e a sfondo sessuale in cui ci troviamo immersi, interrogandoci sui fondamenti della nostra vita in comune, sulla trasformazione in atto della morale e del diritto e sul significato autentico di libertà.

La radice di una svolta: la rivoluzione sessuale

Con la rivoluzione sessuale del 1968 si assiste a una svolta antropologica nel nostro modo di concepirci, spingendo il paradigma della libertà personale fino alle estreme conseguenze. La libertà di cui si andava alla “conquista”, dopo quella che atteneva alla nozione di libertà coscienza (di parola, espressione, scelte religiose etc.), si prolungava fino ad abbracciare le esigenze del corpo. In quel novero di anni veniva raggiunta e proclamata nella prassi la liberazione sessuale, territorio ultimo di conquista dello spirito moderno, sempre ansioso di protendersi fichtianamente oltre sé stesso e spostare più innanzi i confini di frontiera dell’autodeterminazione.
L’unità di corpo e anima viene ulteriormente scissa. Se al principio dell’età moderna, nel XVI secolo, Cartesio sposta il baricentro dell’attenzione sulla res cogitans, il soggetto di pensiero, l’autonomia della ragione, dopo molti avvicendamenti e sviluppi, nella seconda metà del XX secolo è il corpo, la res extensa, a divenire eletto campo d’una nuova ed ipertrofica esplorazione, sia mediante l’indagine scientifica, sia attraverso la liberalizzazione dei suoi atti e contenuti. In pochi decenni da allora, i confini del pudore e della morale sessuale vengono abbattuti e trasformati. In seguito a ciò nasce e si sviluppa, fra le altre, la pornografia, un’industria dell’egoismo globale da smantellare per le ragioni già viste.

Liberalizzazione dell’impurità e le nuove frontiere del pudore

Un’ondata di liberalizzazione di ciò che un tempo era cristianamente considerata impurità, simile a gigantesca nube, è calata sul mondo delle nostre relazioni, intorpidendo i confini tra il lecito e l’illecito. Se la nostra nudità di fronte a Dio e gli uni di fronte agli altri non fa più scandalo, ciò che ancora rileva, per il diritto penale, è che non vi sia coercizione della volontà. In ciò si coglie il valore supremo da difendere, la libertà di auto-determinazione, le nuove forme di pudore e nudità. Una volontà costretta, fa scandalo.
Così, la nozione di pudore si modifica: se prima riguardava un’attitudine percepita come oggettivamente deprecabile, adesso attiene alla condizione soggettiva dell’agente. Se prima il divieto imposto dalla norma morale del pudore comune determinava una valutazione negativa di qualunque genere di ostentazione della sessualità offerta in pubblico tramite vestiario, comportamenti, effusioni, oggi, ciò che non viene più ritenuto ammissibile, all’opposto, è che taluno sia costretto (o impedito) a fare (o a non fare) qualcosa contro la propria volontà e desiderio; di modo che se facesse ciò che vuole di sua spontanea volontà, nei limiti di ciò che è legalmente consentito, ciò andrebbe bene. Insomma, la spontaneità all’origine dell’azione, del pensiero e dell’espressione, ossia il loro promanare e manifestarsi senza coercizione dall’autentica fonte d’una libera volontà, è divenuta la regola e il parametro attraverso cui valutare ogni intrinseca “moralità” degli atti umani, che per quanto si attuano entro i vincoli di legge, se sono liberi, sono anche salubri.

La salute riproduttiva

In quest’ottica ci pare di cogliere i riferimenti alla salute riproduttiva. In sostanza, essi importano tale concezione della libertà: salutare è ciò che non impedisce alla libertà di esplicarsi e sgorgare liberamente fuori dall’individuo cosciente.
La salute viene così intesa dalla prospettiva del soggetto, ma sganciata da ogni responsabilità dei suoi atti, quantomeno in materia sessuale.
Da tale prospettiva, quella del soggetto libero, proprio il concepimento, fra gli altri impedimenti, può rappresentare un ostacolo alla spontaneità dei programmi e opzioni preferenziali di una persona. Sul paradigma della libertà si rende pertanto necessario, opportuno, o comunque possibile annullare quelle scelte, o quantomeno i loro effetti a posteriori. Parlando di atti sessuali, ciò si realizzerebbe tramite liberalizzazione, produzione, commercio massivo di contraccettivi. Essi garantirebbero il rimedio più conseguente alla sopravvenuta liberalizzazione degli istinti sessuali. I contraccettivi sono oggi applicabili prima dell’atto, durante l’atto, ed anche conseguentemente all’atto sessuale, in modo da poter sempre liberare i soggetti di atti sessuali specifici dalla reale possibilità dei loro effetti, e al contempo dall’assunzione di responsabilità a riguardo. In tal modo, frustrato il fine dell’atto di concepimento, il mezzo dell’organo sessuale può coerentemente venire asservito alla concezione di libertà vigente, così che gli effetti degli atti sessuali individuali possano essere in qualche modo revocabili. Ciò approssima gli atti sessuali ai negozi contrattuali, come del resto comune ne è la matrice, mentalità e cultura giuridica: la civiltà di libero commercio. Non è strano che in questa cornice antropologica si diffonda e prenda corpo la pornografia, come specchio industriale di una ben precisa mentalità che informa di sé anche il diritto. Tal che le produzioni umane, quasi a specchio l’une delle altre, appaiono come frutti d’un medesimo spirito. Uno spirito di prostituzione e commercio di sé, del proprio nome, immagine, intimità, affetti, e finanche funzioni vitali (emblematiche le maternità surrogate e pagate).

Di rivoluzione in rivoluzione

In effetti, l’assunto dell’auto-normatività del pensiero costituisce il contributo di una svolta fondamentale per il passaggio da una concezione cristiana del mondo -avente per Dio come soggetto garante della realtà, dell’esperienza, del mondo e delle leggi sue fisiche, morali e psichiche, e in definitiva di ogni verità della scienza- ad una moderna, dove centro unificatore dell’esperienza, verificata attraverso l’indagine di un metodo razionale applicato alla realtà è il soggetto. Conseguentemente a quei presupposti, tale percorso addiviene a sviluppare nell’uomo contemporaneo coscienza di un auto-determinarsi della stessa condotta morale, tale per cui, norma morale è solo quella che io mi do entro i confini di ciò che la legge positiva non mi vieta. Da ciò discende che bene per l’uomo sarebbe ciò che egli nei limiti di legge si pone e persegue. Essendo ciascuno norma di sé, in un’ottica di intervento minimo delle istituzioni pubblico si ammettono quali confini legali solamente quelli atti a circoscrivere il campo d’azione della libertà e della spontaneità umana, per quanto questa non incida e sconfini a detrimento dei beni giuridici del prossimo. E ciò, primariamente, viene stabilito sotto l’aspetto di una tutela offerta principalmente al bene della vita e della proprietà, fra cui, oggi, è intesa quella della propria connaturata realtà sessuale, di cui è lecito disporre a piacimento fino al punto da auto-determinarne il sesso, e ciò nonostante l’aperta contraddizione di una tale auto-affermazione, smentita però dal dato biologico connaturato al corpo ricevuto per natura e alla personalità. Avallando una simile prospettiva, il legislatore acconsente ad un’impresa mai tentato finora da parte dello spirito umano: positivizzare per legge -ma non per questo realizzare- il discioglimento dei legami con la propria realtà fisica. Si assiste al bizzarro tentativo di sovvertire le leggi inscritte nelle nostre membra con quelle redatte nei Parlamenti e nelle commissioni legislative. Esse prevedono e promulgano concessioni all’abnorme pretesa per cui un maschio potrebbe dirsi e condursi quale femmina e viceversa, mediante una finzione giuridica incapace di conferire effetti al proprio dettato nel mondo delle realtà fisiche, bensì solo in quello delle giuridiche e convenzionali. Non diversamente da come chiunque, per una legge simile, potrebbe anche affermare un giorno d’avere identità di struzzo anziché uomo, magari imitandone l’andatura e l’alimentazione. Ma dal punto di vista della natura della forma delle sue membra e del genere inscritto nelle sue cellule fin dal principio della sua esistenza in un corpo, nessun uomo potrà mai divenire struzzo, come nessun maschio divenire femmina semplicemente affermandolo nel mondo del diritto, ma senza alcuna reale corrispondenza nel mondo fisico, essendo quest’ultimo “dato” secondo genere e specie e senza possibilità d’interscambio, sostituzione, metamorfosi o dissoluzione della categoria specifica che l’intelletto creatore fin dall’inizio ha assegnato ad ogni realtà creandola.

La relazione fra libertà di commercio, schiavitù e impurità

La liberazione sessuale, del resto, si è imposta proprio nel segno di liberare gli individui ai propri appetiti e impulsi primari. Con ciò, dando esca anche verso gli appetiti più perversi e le concezioni più bieche e degradanti dalla propria verità. Ciò, non casualmente, è venuto affermandosi in un periodo di straordinarie nuove possibilità offerte al genere umano a seguito di un binomio nel progresso dei commerci e nelle tecniche di diffusione dell’immagine; si potrebbe dire che la globalizzazione di una mentalità sottilmente pornografica, la sua estrema facilità a raggiungere e corrompere ogni sbarramento consolidatosi attraverso i secoli da etiche variamente intese al disprezzo del corpo e dei suoi appetiti sessuali come fini a sé stessi, si è raggiunta proprio nella non casuale proliferazione di almeno tre fenomeni concomitanti nel dopo guerra: la vittoria degli Stati Uniti con l’imporsi sulla scena globale della sua ideologia egemone, il libero commercio (con posizione degli stessi USA predominante e concorrenziale su tutti gli altri) come agenda della costruzione dei nuovi rapporti globali, l’innovazione delle tecniche di riproduzione dell’immagine (fotografia, cinema, internet) con la penetrante diffusione nelle società di massa di un’ottica sottilmente propagandistica di plagio verso l’ideale offerto dal libero scambio, ossia dell’ideologia predominante sotto cui viviamo, l’appagamento edonistico e la massimizzazione dei piaceri attuato tramite d’essa. Un’agenda politica apparentemente internazionalista (ma nell’ottica e nell’interesse dei vincitori della guerra) ne ha veicolato una commerciale, che a sua volta a favorito un movimento di obiezione agli assetti imposti all’educazione europea del tempo (di stampo socialista e cristiano), capaci di incidere e di opporsi all’omologazione della società dei consumi e delle masse. In tale cornice, la gioventù dell’epoca si omologava per prima alle istanze provenienti dall’egemone politico di turno, adeguandosi e facendo proprie le sue istanze pseudo-culturali. All’etica dello sviluppo in senso sociale e cristiano, si sostituiva così un’etica dell’affermazione degli individui e delle loro istanze. Fra queste, quelle di natura sessuale che, anche in nome del possibile loro commercio, andavano soddisfatte. Dopo il ’68, divenendo l’individuo a sé stesso fine, si era chiamati a guardare benevolmente alla sfera dei propri impulsi sessuali e ad accreditarli nell’esercizio più spontaneo e libero; per allora, la possibilità era circoscritta all’attrazione uomo-donna, ma oggi, ad evoluzione di quel discorso, a qualunque genere di inclinazione. Prospettive di legge odierne, come quelle sopra viste (D.d.l. Zan) sono significative più di ogni altro a descrizione del fenomeno.
Su tali presupposti storici -uniti a quell’inclinazione di natura e quella ferita originale che ci contraddistingue- si spiega l’ampia e sovrabbondante offerta in commercio di sessualità, virtuale e non virtuale.
E’ stato il paradigma della libertà e l’auto-determinazione spinta fino alle estreme conseguenze a poter legittimare la disposizione del proprio corpo e dei propri affetti fino al culto di sé. Farsi oggetto di un mercimonio rivolto a una fruizione indeterminata, appare oggi cosa normale; ciò che pochi decenni fa avrebbe suscitato biasimo e rigetto sociale, pare essersi normalizzato. Sono rimasti ben pochi confini, per lo più a tutela dei bambini; ma da più parti, anche in Europa, si spinge per rendere leciti, o quantomeno tollerabili, anche gli atti di natura sessuale nei confronti di loro.
La domanda di “sesso”, invero, è sempre stata alta, perché ciascuno di noi è per natura teso a soddisfare il proprio appetito sessuale. Naturalmente inclini alla ricerca di un partner, inoltre, per la ferita di Adamo, siamo oltremodo curiosi e inclinati verso la trasgressione dei comandamenti divini, tra cui vi sono i divieti degli atti impuri: ossia, quanto alla morale sessuale, atti omosessuali, atti libertini, atti di auto-erotismo etc.
Per molti secoli, a tal riguardo, a freno del disordine legato al lasciar spazio agli impulsi sessuali vi sono state dottrine filosofiche, ascetiche (non solo cristiane), cultuali, tese a contenere quelle spinte per rinserrarle entro una visione più o meno negativa del corpo, o comunque degli atti sessuali fini a sé stessi. Per millenni, sulla terra, l’uomo e la donna sono stati educati all’insegna della continenza sessuale, se non altro, per ragioni di pudore sociale. Ma oggi, abolito il pudore, ci troviamo immersi in una mentalità che ha sempre più inteso sdoganare la sessualità mercificata, l’esplicitazione per immagini pubbliche di atti sessuali sottratti all’intimità dei protagonisti, valutandola come un libero (e accreditato) esercizio della propria libertà, e quindi anche di un diritto soggettivo a determinarsi nella cornice di situazioni legittimate dall’operatività entro la sfera contrattuale, variamente intesa. Più in generale, esulando da tali rapporti negoziali, si è inteso rivendicare il primato della libertà personale anche con riguardo all’esercizio delle scelte di natura sessuale, in pubblico o in privato.
Da questa impostazione, in breve tempo sono sorte in occidente discipline, mestieri, commerci, professioni, nuove modalità di scambio aventi per oggetto o esplorative (sessuologia) la sessualità umana. Si è assistito così a un’inversione di tendenza: mentre per la maggior parte dei secoli che ci precedevano, la sessualità costituiva ambito sottratto alla riflessione scientifica come alla mercificazione da una regola del pudore, variamente intesa, ma tale da imporsi come paideia condivisa nell’alveo dello sforzo educativo verso le nuove generazioni, d’improvviso essa appare come desueta. Chi oggi, fra i politici, si impegna per la tutela dell’innocenza? Le nuove generazioni, al contrario, sono lasciate in balìa di una novità antropologica: la sessualità sarebbe un fenomeno umano, naturale e neutrale, cui accostarsi ciascuno secondo la propria inclinazione, per la consumazione del proprio bisogno. Da una prospettiva di contenimento educativo, si è passati così in breve tempo dall’istillare il senso di colpa verso ogni prassi d’impurità, a un “liberi tutti” generalizzato. Ma in questo passaggio, ci si è preoccupati delle possibili conseguenze?
Voglio portare un piccolo esempio. Da bambino, alla fermata del bus, di fronte all’impianto dei primi distributori automatici di preservativi fuori dalle farmacie, mi trovavo in imbarazzo: questi suscitavano la reazione del mio pudore. Quel pudore lo trovavo in me stesso, nel mio animo: nessuno me lo aveva conculcato. Nonostante io fossi figlio di due genitori d’orientamento liberale e progressista, che quindi non avrebbero neppure problematizzato la mia questione, il mio pudore era lì a precedermi, ancor prima che maturassi alcun genere di coscienza cristiana; lì l’ho ritrovato, dopo aver scelto di far guerra al peccato, a seguito di riflessione. Da tale ricordo ne ricavo un indizio: forse che la nostra natura spirituale sia intrisa di una sorta di pudore innato?
In effetti, si è molto discettato in seno al sorgere dei moti del liberalismo americano e francese di fine XVIII secolo, circa i contenuti dell’innatismo giuridico: vita, proprietà e libertà sarebbero diritti innati, consustanziali all’essere umano. Perché non anche il pudore? Certamente, per il tempo una simile questione non avrebbe avuto ragion d’esser, dal momento che la pudicizia era parte integrante della formazione comune: oggi che non lo è più, il problema si pone e richiede uno sforzo culturale appropriato ed energico, almeno per coloro che s’impegnano per il desiderio di entrare nel regno dei cieli. Tanto più richiesto, per il fatto che la società americana ed europea, che pure si sono evolute nel solco di quegli indirizzi, a tale riguardo si sono prodotte in determinazioni opposte a un tale orientamento.
Oggi, per la soddisfazione del bisogno sessuale, ricorsi alla masturbazione vengono incoraggiati perfino dalle istituzioni mediche, come -con tanto di pubblicità al riguardo- questo periodo di clausura forzata da covid 19 ha mostrato. Ma la liberalizzazione dell’impurità, sempre più spinta e incoraggiata può considerarsi davvero un punto in fatto di progresso ed evoluzione delle civiltà? I frutti gridano l’opposto, come di recente ha fatto osservare il papa emerito Benedetto XVI, nella considerazione dei frutti del ’68 del secolo scorso. Da allora, nelle nostre società, si ammette la liceità, e perfino salubrità, non solo delle pratiche di masturbazione, ma di qualsiasi genere di condotta sessuale, purché non sia a danno di minori. A seguito di quelle contestazioni alla morale stringente, allora vigente, nascevano i cinema a luci rosse, le riviste erotiche, gli spettacoli dove la nudità diventava oggetto di offerta al pubblico. In quel novero di anni -dapprima in forma più attenuata e poi sempre più esplicita- nasceva l’industria del porno, veicolata dapprima dal comparto cinematografico e dalla stampa di riviste dedicate, poi, dopo il 1999, estesa tramite la rete al pubblico domestico d’ogni parte del globo, raggiunta fin dentro le case con l’allacciamento degli utenti alla rete da computer privati ed oggi vieppiù strabordante tramite l’ausilio dei social network (Instagram, Tik Tok, Facebook) e dai telefonini nelle mani dei bambini. Con attentato alla loro innocenza, educazione e crescita.

L’educazione sentimentale affidata al porno

La propensione al consumo di pornografia, dapprima percepito come trasgressivo entro una cornice etico-sociale che gli resisteva e vi si opponeva in forme più o meno aperte, in pochi decenni ha imposto invece, per milioni di persone, le sue regole, regole che hanno finito per impregnare di sé il mondo dei rapporti reali. Così, ciò che solo cento anni prima sarebbe stato riguardato e deprecato come totalmente sconveniente e offensivo d’ogni purezza e concezione di sé, attraverso la pornografia si è invece affermato ed assimilato, stimolando nei suoi consumatori una mentalità precisa da esercitare nei confronti del sesso opposto. Tutto ciò ha dato adito a una rinnovata brutalità nei rapporti fra uomo e donna, favorendone peraltro il reciproco isolamento. Non si è trattato perciò affatto di un’evoluzione nei costumi, men che meno di una via d’emancipazione, atteso il degrado dell’immagine sia della donna che dell’uomo, bensì di una crisi profonda dell’essere umano dovuta allo sprofondamento nel degrado, nella bieca considerazione della propria dignità e dei doveri che è lecito attendersi l’uno dall’altra, per come inculcati dalle oscenità proposte dagli autori dell’industria pornografica, dai loro attori -professionisti e amatoriali- nonché dai fruitori. Se la regola dei rapporti fra uomo e donna ha tratto alimento nella pornografia, la violenza fra di essi allora ne è divenuta il metro, come tristemente ci ricorda la cronaca pressoché quotidianamente.
Ciò avviene perché, da industria che era, il porno sembra divenuta la cifra dei nostri rapporti, tale per cui -a ben guardare- la società dei consumi, da spettatrice di quel mondo -nel segreto-, ne è divenuta essa stessa interprete e pubblica propagatrice fino ad informare di sé i costumi pubblici delle persone, e quindi l’etica e le leggi. Se oggi discutiamo di avallare la possibilità per un uomo di condursi come donna ed averne perciò diritto, senza però esserlo; se discutiamo di unire in matrimoni coppie di persone dello stesso sesso, inadatti per natura a procreare, tutto ciò si deve all’ebbrezza impura di cui -consapevolmente o meno- ci siamo imbevuti e abbiamo concorso ad abbeverarci gli uni gli altri con i nostri discorsi impuri, le nostre condotte impure, la somma delle quali ha prodotto un’etica -invero un’immoralità- condivisa a livello sociale.
Ciò, invero, si è compiuto anche a seguito di una politicizzazione dell’indecenza, in senso favorevole all’abolizione di ogni freno al dilagare dell’immoralità: nessuno infatti tra i politici si è mai erto con un’agenda chiara in opposizione al fenomeno. Non venendo seriamente osteggiata da nessuno, all’interno del liberalismo occidentale, la rivoluzione sessuale ha esercitato su di noi -per mezzo delle proprie industrie- tanto un’attrattiva, quanto una sorta di informazione seriale dei nostri comportamenti. L’educazione sessuale che (non) abbiamo ricevuto, a ben vedere, non è altri che il prodotto di un’industria e di un commercio, che ha mercificato le nostre relazioni. La regola del porno, trovando fertile terreno all’interno di una concezione liberale dei costumi e nel solco di una società assai propensa ai commerci ed al lucro, ha imposto la sua paideia: la persona che hai davanti è un oggetto al servizio del tuo piacere. Sottraendo il prossimo al fine proprio, che è nella regola dei rapporti è il puro amore che gli devo per norma divina, parimenti è sottratto alla sua vera dignità, trascendente, per essere invece da me fruito e consumato in vista del mio eccitamento e godimento sensibile: suo fine, per la mia voluttà, non è più Dio, ma il mio godimento corporale. In tal modo, la mia concupiscenza decapita la dignità d’entrambi.

Pornografia e commercio

La degradazione delle relazioni, l’offensione alla dignità comune e trascendente entro la quale il Creatore ci ha costituiti e che dovremmo tributarci gli uni gli altri, accomuna in profondità ambiti solo superficialmente distanti: la società dei commerci, l’etica fondata sull’assenza di limiti e la pornografia. Quest’ultima sembra essere il giusto contrappasso “educativo” di società ed istituzioni tanto permeate ed animate da aspirazioni di dominio commerciale ed industriale, ove la regola degli scambi e dei rapporti, oltre che a rappresentare l’utile finisce oggi per rappresentare anche l’etico, onde non esisterebbero più i rapporti gratuiti, propri dell’amore oblativo, l’amore di amicizia, l’amore coniugale fedele fino alla morte, trovando spazio solamente l’appagamento emotivo dei propri impulsi di assoggettamento del prossimo al dominio della carne e del commercio. In quest’etica dell’homo oeconomicus, proiettata su scala globale, la geometria dei soli rapporti possibili sembra adeguarsi al porno come al meglio delle proprie possibilità, in una volgarizzazione indistinta della propria incapacità di conoscere i propri limiti e ivi mantenersi. Nella pornificazione delle relazioni umane, in questo globale mercato di prestazioni mai gratuite, veniamo così sospinti per estensione verso la mercificazione e messa in pubblico anche dei nostri affetti più intimi, ad esempio quelli sottesi alla vita familiare. Si tratta di una sorta di pornografia degli affetti, che ha preso piede nelle nostre società attraverso il viatico di cd. influencer(s), per l’opera ed imitazione dei quali, i nostri rapporti più autentici e personali vengono sottratti alla sfera d’intimità ch’è loro propria, per essere fruiti e re-indirizzati ad un mercimonio, ossia a logiche di ritorno sotto l’aspetto di un maggior prestigio sociale, per l’affermazione di sé di fronte a una platea sociale senza volto e senza nome. L’autenticità di quello spazio gratuito rimasto che ancor la vita riserva nell’ambito della sfera domestica degli affetti privati, viene così sottratto per servirsene in un’opera di offerta al pubblico, avendo per fine l’affermazione di sé presso il pubblico. Gioco torbido, meschino e manipolatorio: proprio il contrario dell’amore, che si pretende di veicolare e immortalare digitalmente, mentre non si tratta che di un autentico fake. Tutto ciò, peraltro, è perfettamente adeguato ad una società che ha instaurato come fonte primaria e regola fondamentale per se stessa il commercio, di cui il porno -sia essa prostituzione dei corpi o degli affetti più intimi- rappresenta bene il meccanismo d’ingaggio. Dove viene premiata e massimizzata la circolazione degli scambi e gli appagamenti individuali rappresentano la principale fonte di lucro per l’industria, dove dunque anche le transazioni commerciali vengono intensificate e stimolate da una propensione al consumo che si spinge alla mercificazione dell’intimità umana e la personalità umana viene aggredita in tutta la sua gamma, ciò che si riserverebbe alla collettività, in un’ottica utilitarista di massimizzazione dei piaceri e di minimizzazione delle frustrazioni (Bentham), nella liberalizzazione pronunciata di ogni possibilità di commercio e nell’idea dei suoi promotori, sarebbe la felicità (in senso edonistico) dell’individuo e l’appiattimento della curva collettiva dei mali. Ma i risultati contraddicono tali auspici, giacché proprio il contrario accade, constatando l’esasperazione degli individui e il moltiplicarsi del malessere sociale. Onde, a fronte di tutto ciò, è venuto il tempo di reclamare con forti grida di il diritto all’innocenza.

Diritto all’innocenza

E’ singolare. Dei principali due diritti predicati dall’innatismo alla base delle costituzioni liberali, il diritto alla proprietà e quello alla vita, solamente il primo ha avuto un seguito e riscontro significativo nei codici e nelle costituzioni di fine ‘700. Essa sola, la proprietà, ha ricevuto protezione nei primi codici, e ciò in quanto inglobava in sé le aspirazioni di rivendica della proprietà da parte della borghesia liberale ovunque fiorente.
Si trattava, in buona sostanza, di porre fine alla legittimazione del mondo invalso fino ad allora, e ciò attraverso l’elaborazione di nuove forme giuridiche favorevoli alla frammentazione e circolazione degli assetti proprietari e sociali: affinché -sul cardine del principio dell’uguaglianza formale- essi defluissero dalla disponibilità dei nobili e dei chierici alla sacralizzata proprietà borghese. In questo corale disegno di affermazione sociale e cetuale, perfino il diritto alla vita doveva risultare ottimo come pretesto, ma di troppo quanto all’effettiva applicazione. Tanto che, se pur idealizzato formalmente, in concreto esso venne denegato e disapplicato con i primi eccidi di massa a danno dei contro-rivoluzionari francesi. Se avessero dovuto dare un contenuto effettivo a quanto astrattamente predicato e teorizzato in forma di idea, alle due rivoluzioni non sarebbero seguiti né il genocidio degli abitanti della Vandea promosso dai fautori della rivoluzione (e ancor oggi denegato da un’amministrazione di Stato nostalgica dei suoi miti rivoluzionari, nonostante la comprovata veridicità di quei fatti nelle fonti storiografiche), né il genocidio dei popoli indigeni americani, attuato in larga scala dai colonizzatori francesi e britannici del nord-america.
La questione circa un diritto innato alla vita tornò a imporsi a seguito delle tragedie del nazi-fascismo, all’esigenza di trovare ragioni giuridiche per definire la colpevolezza dei gerarchi che attuarono le direttive di Hitler senza opporvisi: in mancanza di un concetto di diritto naturale circa la provenienza del diritto alla vita, costoro si considerarono kelsenianamente meri esecutori di un vincolo giuridico e positivo legalmente imposto. Pur riaffermando l’origine innata, ossia consustanziale alla natura stessa dell’essere umano, di certi diritti, fra cui quello alla vita, in realtà neppure nelle sedi del diritto internazionale e nelle carte ONU dei vincitori della guerra, si giunse mai a riconoscere radicalmente la concretezza di contenuto di un tale diritto: e cioè la salvaguardia della vita umana in ogni stato e forma del suo sviluppo. Solo la vita già apparsa fuori del grembo materno pareva opportuno circondare di forti tutele: non dunque quella incipiente dei nascituri, così sottratti ad ogni diritto a svilupparsi secondo la natura del loro potenziale sviluppo a seguito di concepimento; né si pervenne mai a concepire la coscienza morale, come riserva di diritti, da difendersi contro gli eccessi di una coscienziosità pervertibile a livello sociale. Sulla scorta della liberalizzazione dei costumi sessuali, al contrario, apparvero le prime rivendicazioni di una concezione profondamente avversatrice al diritto dei nascituri a vivere, contro la resistenza delle madri al parto, e men che meno si pose freno alle sempre più palesi aggressioni al pudore. Concezioni per la quali il nascituro sarebbe parte del corpo della donna, e dunque soggetto alla libera disponibilità di lei, con diritto di vita o di morte sul proprio concepito, andarono di pari passo con la ridicolizzazione di chi vedeva nell’offesa alla retta morale una sicura china di disvalore. Contraddizione profonda: da una parte la rivendicazione della libera disponibilità del “proprio” corpo, cui si cumula quasi per immedesimazione soggettiva quello del figlio nascituro; dall’altra, l’incapacità, o peggio, la volontà manifesta di negare l’alterità della persona di colui al posto del quale si pretende di compiere la scelta suprema, esercitando al posto del proprio figlio il diritto di vita o di morte sul suo corpo indifeso, aggredito e stroncato proprio nel momento della sua maggior vulnerabilità, quando il feto non si è ancora distaccato dall’utero materno, mentre assorbe le forze necessarie al proprio sviluppo in vista del distacco dal grembo e l’immissione nella propria autonomia organica.
Atto vile e deprecabile, non meno di chi uccide cogliendo alle spalle un proprio congiunto. Atto reso esecrabile ancor più dal consenso comune, dalla legge positiva che lo sostiene.
Una contraddizione che si riverbera dal fondo delle leggi alla prassi delle società.
Una profonda idiosincrasia fra l’ideale proclamato e quello operato pare ad esempio cogliersi nella società euro-americana, intrise (quest’ultima in special modo) di forme di puritanesimo delle apparenze commiste a una sostanziale arrendevolezza rispetto alle spinte verso la degenerazione dei costumi morali, e specialmente in campo etico e sessuale. Degno di nota il fatto che l’industria pornografica, anziché ostacolo e censura da parte della politica, trovi invece la propria consacrazione negli scandali che ne impelegano i più alti vertici: sicché, liberalizzazione dei commerci e dei costumi appaiono facce di una stessa moneta, quella pagata da un’agenda liberale che trova concordi i suoi fautori, per volersi imporre sulla scena politica globale e a tutti i popoli della terra. Gravando su di essi e andando così di pari passo la liberalizzazione dei commerci con quella dell’impurità.
Di questo spirito di prostituzione che impregna tutta la terra ci pare sentire l’eco in forma di simbolo nel libro della Rivelazione di Giovanni Apostolo, al capitolo 17,1:

-Allora uno dei sette angeli che hanno le sette coppe mi si avvicinò e parlò con me: «Vieni, ti farò vedere la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque. Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione». L’angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, teneva in mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: «Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra».

Proclamare il diritto al pudore significa reagire energicamente a questo andazzo globale, e reagirvi -se necessario- anche con leggi. Giacché il pudore è innato alla nostra persona umana, fatta a immagine delle persone divine, i suoi diritti e le sue tutele debbono apprestarsi come verso ciò che ha più valore in quanto più intimo all’uomo, sua proprietà più di quanto non lo siano i beni mobili ed immobili verso cui pure il diritto guarda e che prende in grande cura. L’innocenza precede l’assillo alle proprietà reali, che sono costruzioni dell’intelletto adulto. Le esigenze del pudore sono connaturate alla nostra innocenza originale; quelle della proprietà e del possesso, invece, sembrano più discendere e promanare dalla crisi della perdita di Dio contratta mediante il peccato delle origini, continuamente richiamata negli auspici di un’avidità cieca, che quasi ci tiene insieme in società per legge di peccato, quella per cui ci pare di dover possedere ed arraffare il tutto, ma nella considerazione di non esserne più compartecipi. Se quindi un diritto alla proprietà delle cose apprensibili è stato da noi elaborato, tanto più dobbiamo fletterci a quello delle nostre proprietà più intime, radicate e vere che per natura abbiamo in essere. Nella nostra natura umana è indubbio, e lo testimonia la nostra percezione originalmente pudica tramite l’esperienza fattane da bambini e consolidata da adulti per mezzo del lavacro spirituale- che sia incisa profondamente -impressa dal sigillo di purissimo Creatore- un’esigenza di purezza che chiede di esser tutelata nelle forme della morale e del diritto, tanto più oggi in quanto totalitariamente e deliberatamente sconvolta e devastata.

La radice di un errore

Il concepimento dell’idea moderna di libertà e della legittimità di ogni agire sessuale è falsata da ignoranza, perché sta scritto:

«Non commettere impurità»

Inoltre:

«Chi pecca si fa schiavo del peccato»

La Scrittura, parola e norma trascendente perennemente valida per ogni persona, insegna che la libertà umana, oltre ad essere la condizione di possibilità della scelta, si realizza e perfeziona nell’oggetto della sua elezione: la verità del bene, l’opposizione al peccato. Al contrario, chi sceglie e si determina volontariamente verso ciò che agli occhi del Signore è peccato, ad esempio tramite l’esercizio disinibito e disincantato di atti impuri, non può in alcun modo dirsi libero; e se si ritenesse tale, mentirebbe (Gv1), coltivando una pratica di menzogna. Questo è l’insegnamento che abbiamo ricevuto: chiunque pecca, si fa schiavo del suo peccato. Tutti però pecchiamo o abbiamo peccato. La differenza dunque fra noi e il mondo, fra chi è libero e chi invece resta schiavo della propria impurità, consiste in questo: che noi avversiamo e combattiamo il peccato, detestandolo in noi stessi per amore di Dio, ch’è spirito purissimo; il mondo, al contrario, accogliendo e coltivando l’impurità, allontana lo Spirito Santo nel dichiarare lecito e buono ciò che il Signore detesta. Lo schiavo, perciò, non viene stretto ai ceppi soltanto dal peccato della propria accondiscendenza ad ogni forma di impurità, quanto piuttosto dallo spirito di menzogna che avalla nel ritenersi libero di acconsentire alla propria impurità, avendo l’ardire di proclamar “diritto, libertà di scelta”, quel ch’è causa di abiezione e vergogna dinnanzi al Signore.
Questa è l’autentica libertà: dire il vero e praticare la giustizia, cioè scegliere ogni giorno di aderire ai comandamenti divini, come sta scritto:

«La verità vi farà liberi»

Dunque, se avendo peccato, uno vuol esser liberato, vi ha solo un modo adatto: dire la verità a sé stesso e non mentire davanti al suo Dio. Ma se inganna sé, neppure confesserà il vero al suo Dio. E così non potrà riconciliarsi né con se stesso, né con lui, né con tutte le creature che a Dio appartengono. Ed anzi, per potersi ingannare meglio, se ne starà nell’oscurità lontano dal Signore, fingendo di non vederlo, né conoscerlo. Come fanno l’agnostico, l’ateo e il gaudente di comodo. Dietro le loro obiezioni è facile si celino soltanto pretesti per vivere secondo le proprie inclinazioni, anziché sottomettersi alla regola divina della carità. Ma la carità, che è legge di libertà, può essere abbracciata solo liberamente. Pertanto, chi la abbraccia e stabilisce a propria norma fondamentale, si libera gradualmente dal peccato, diventando puro, e tanto più puro quanto Dio richiede per essere degno della sua visione beatifica; chi invece detesta la propria libertà, acconsentendo al peccato fino a farne norma del proprio vivere, non è più lui a vivere, ma il peccato vive in lui, abitandolo, e privandolo di ogni gusto, fino all’odio spirituale di sé. Per questo vediamo che molti si suicidano e deprimono fino al punto di non ritorno: ma se tornassero a Dio, tramite la confessione del proprio male oscuro, subito verrebbero ristabiliti nella pace e nella serenità dello Spirito Santo.

Possiamo pertanto concludere che il reale fondamento della libertà umana non è la mera autodeterminazione, quasi che essa sola, neutralmente orientata, possa renderci liberi. La conseguenza più profonda del potere di scegliere, comporta che si scelga -essenzialmente- fra due strade: di vita eterna o di morte eterna. La libertà, nella sua essenza, è determinazione di chi vogliamo essere in eterno. Tale scelta si compie nell’oggi, qui, ora. Ogni istante, pertanto, concorre al rafforzamento di tale scelta, secondo cui ci costituiremo per sempre. Il mondo rifiuta di concepirsi secondo l’eternità del proprio destino, il singolo destino di ogni persona e natura umana, perché tali discorsi appaiono gravi e faticosi. Ma la vera fatica, in verità, è sobbarcarsi di pesi sempre più gravi e legarsi a funi sempre più stringenti, come quelle che il peccato, la lontananza dalla purezza, hanno da offrirci. Chi si ritiene degno di diventare libero, costui vuole e liberamente orienta il proprio nucleo vitale al conseguimento del bene di Dio tramite l’osservanza dei suoi comandamenti, ed ivi si sforza di stabilizzarsi e permanere, come sta scritto:

«Rimanete nel mio amore»

e anche:

«Chi osserva i miei comandamenti, questi è mio amico»

Chi invece è fedele solo a se stesso e si fa obbediente ai moti della propria concupiscenza, se non si impegna a ricondurli ad ordine, non ha l’amore di Dio, ma l’amor sensuale di sé, e nel proprio disordine gusta già la propria insoddisfazione, quale pegno di dannazione eterna, se non si corregge. Il Signore, ch’è buono, permette che la gusti, affinché ne provi nausea e si smuova in cerca di Lui, così da poterlo saziare e far tornare contento di esistere.

Conclusioni.

Uno spunto di cronaca ci ha portato a riflettere sulla relazione fra la concezione che abbiamo di noi stessi, dal punto di vista antropologico, e le conseguenze e ricadute di tali visioni nella prassi dei nostri atti sociali. La libertà umana da alcuni secoli è stata intesa in modo parziale. Non è più possibile dare credito alla visione, e alla concezione politica, sociale ed economica che la sostiene, secondo cui la libertà dell’uomo consista nell’autodeterminarsi entro i limiti imposti dalla legge. Ci troviamo infatti a un punto di inciviltà e barbarie tanto avanzate, sulla scorta di simili presupposti, che tali impostazioni debbono essere seriamente respinte e avversate. La verità della condizione umana non può essere sganciata dalla natura di creatura entro cui il nostro destino è consegnato e iscritto. Entro tal destino, la facoltà di scelta comporta l’elezione di sé stessi verso un destino di verità, bene ed eternità nella felicità, in accordo ai comandamenti che il Signore ci ha dato, oppure di afflizione eterna. Il paradigma moderno, che ha posto l’uomo al di sopra di tutte le cose, è sconfitto. Onde, non possiamo che riprendere il cammino proprio laddove l’avevamo lasciato: nella coscienza di essere creature fatte dai cieli e per i cieli. Tutto ciò comporta il rigetto di quanto il mondo ci ha presentato come lecito: impurità, dissolutezze, pornografia, omosessualità, atti impuri; tutti questi atti concorrono alla nostra dissoluzione come creature degne di innocenza e purezza. Solo tenendoci saldi ai comandamenti divini, possiamo essere sicuri di camminare nella verità e di abitare nello Spirito Santo. Non si tratta, come dice San Paolo, di far la guerra alla carne e al sangue, perché siamo creature fatte anche di sangue e carne; tuttavia, si tratta di signoreggiare, alleandoci al Signore, sulla nostra concupiscenza e i nostri istinti, per ricondurci a verità e retta ragione, secondo il disegno in cui siamo inscritti. La scelta che facciamo ora, ogni istante, sarà ciò che raccoglieremo per tutta l’eternità, gustando i frutti della vita eterna, se saremo fedeli al Signore.

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