«Senza di me, non potete fare nulla»

Gv 15,5

Laboratorio politico cattolico

Pubblicato in Costituzione italiana, Dottrina sociale, Economia e grazia il 7 dicembre 2017

di Giovanni Traverso

La povertà in Italia è la ricchezza di Francoforte

L’Istat fotografa lo stato della nostra economia sociale, ossia del livello di reddito medio distribuito fra la popolazione italiana: quasi il 30% di italiani sono poveri. Ma se una nazione s’impoverisce per debiti, il creditore e relativi soci di capitale si arricchiscono parimenti, sproporzionatamente e iniquamente: sono la banca centrale europea e le banche centrali nazionali. Vediamo come e perché.

In questo articolo ci focalizziamo su quella che, a nostro avviso, è la maggiore fra le concause atte a determinare l’impoverimento della nazione. Si tratta di un’ iniquità di sistema, per tanto legalizzatasi nell’ evoluzione politica e sociale che ha condotto al moderno sistema di creazione monetaria, affidata esclusivamente al ruolo delle banche centrali d’ emissione.

Dobbiamo anzitutto illustrare e comprendere quali siano le spinte economiche che concorrono a creare o diminuire la ricchezza nazionale prodotta.

Per coloro che fossero completamente a digiuno di elementi di macroeconomia, che è lo studio degli aggregati economici determinanti per l’andamento del reddito complessivo di una nazione, riportiamo qui di seguito i suoi elementari fattori di analisi.

R= reddito nazionale. È il prodotto del lavoro dell’intera nazione

C= consumi. Misura la capacità di spesa delle famiglie italiane

I= misura la somma degli investimenti per l’ampliamento produttivo fatti dalle aziende

S= misura la spesa della Repubblica italiana

Esp. = esportazioni di beni e servizi

Imp. = importazioni di beni e servizi

L’analisi macroeconomica rileva che il reddito di una nazione è uguale alla somma nazionale dei consumi delle famiglie, degli investimenti strutturali delle imprese, della spesa pubblica dello stato e delle esportazioni, meno le importazioni:

Dunque:

1)    R = C + I + S + esp. – imp.

cioè,

R(eddito) = C(onsumi) + I(investimenti) + S(pesa pubblica)  + Esp(ortazioni) – Imp(ortazioni)

R, il reddito della nazione, è, in altri termini, il cosiddetto PIL, cioè il prodotto interno lordo della nazione. Prodotto, perché commisura la somma degli utili/guadagni di una nazione per la produzione e vendita complessiva di beni e servizi; interno, perché riguarda solo gli operatori economici di una data nazione, in questo caso la Repubblica italiana; lordo, perché la cifra incorpora le voci di spesa dette “costi di ammortamento”, necessarie per la manutenzione delle strutture e attrezzature produttive impiegate.

Notiamo: R = PIL; che cosa è infatti il prodotto interno lordo, se non il reddito del lavoro di un’intera nazione?

Ciò è in linea con l’art. 1 della Costituzione della nostra repubblica, che individua proprio nel lavoro il fondamento in grado di sorreggere la tenuta di un’intera nazione, nell’ articolata complessità di tutti i suoi beni e servizi.

Una semplice osservazione della equazione (1) sopra riportata, permette di evidenziare:

Al crescere di S, la spesa della Repubblica, sul lato destro dell’equazione, cresce anche R, il reddito nazionale, sul lato sinistro. Vale a dire, più lo stato spende, più i cittadini sono ricchi di servizi, possibilità di investimento, lavoro e acquisti (consumi).

Un aumento della spesa pubblica, a parità di condizioni degli altri addendi, determina così un aumento del reddito disponibile per gli italiani.

Perché dunque la Repubblica non aumenta la sua spesa pubblica?

La risposta è nota: la Repubblica italiana, con l’ingresso nell’ Unione Europea, si è vincolata ad accordi internazionali che prevedono un patto, per il quale non è più possibile spendere in disavanzo oltre una certa soglia. In altre parole, lo Stato non ha più il potere, se lo ritiene opportuno, come nei casi di povertà endemica, di intervenire con spese pubbliche virtuose, in soccorso dei cittadini sprovvisti di soldi e lavoro per quasi un terzo della popolazione.

Ora, il compito di un Governo giusto deve essere quello di tutelare i suoi cittadini, senza preferenze per gli uni o per gli altri, ma, dovendo fare scelte, esso deve tutelare le fasce più povere ed esposte alla miseria, tanto più se sono la maggioranza. Questo chiede la dottrina sociale, oltre che il buon senso. Se in una famiglia, un figlio è disoccupato e senza soldi, a meno che non dipenda dalla sua scarsa propensione al lavoro o abiti viziosi, i genitori sono tenuti a concentrare sopra di lui i propri sforzi educativi ed economici al fine di aiutarlo ad emergere nelle sue qualità e possibilità.

Lo stato italiano e il suo governo attualmente sembra invece voler agevolare solo quella parte di società che, forte della propria intraprendenza, coglie nelle occasioni offerte dal mercato globale e finanziario le risorse per creare maggiore ricchezza privata. Questo avviene in quanto la classe politica dirigente non ha né la volontà, né la forza di porre un argine alle direttive provenienti da coloro che hanno interesse a lasciare la nazione in una posizione di passività di fronte alle pretese espansive di colonizzazione commerciale. Ai giganti dell’ economia mondiale, le multinazionali, in nome del libero mercato (= assenza di regole), è consentito di sfruttare l’abbassamento del costo del lavoro, prodottosi in seguito alle politiche (mirate dagli stessi poteri economici) di impoverimento sociale, depauperando così l’offerta produttiva e le possibilità di impiego delle nostre piccole e medie imprese, costrette a chiudere. In questo asservimento della politica all’ economia capitalista e ultra liberista, le banche centrali dettano l’agenda politica, impugnando la moneta come strumento di dominio, creando e ritirandola per perseguire obbiettivi d’interesse proprio (“la stabilità dei prezzi”, vd. lo Statuto della Bce), entro cui le specifiche esigenze dei Governi nazionali, che hanno attribuito loro il potere di emettere moneta, nonché quello dei loro cittadini passa in secondo piano.

Si giunge così al paradosso che l’ interesse di un’intera collettività nazionale è deciso in base alle opportunità di pochi, potentissimi, gruppi economici; mentre il flusso monetario è deciso da ancora meno persone: i Governatori delle banche centrali e i loro consigli direttivi. A questi ultimi infatti è stato attribuito il potere di emettere o togliere moneta circolante.

E’ giunto il momento che anche la Repubblica italiana ragioni nella stessa ottica di un’ impresa con costi e benefici. Quali i costi dell’ adesione all’ Eurosistema? Quali i benefici?

Se l’adesione al trattato europeo si commisurasse ai risultati di gestione, piuttosto che a prese di posizioni aprioristiche, risulterebbe che gli effetti dell’adesione all’ Eurozona, in Italia, oggi  sono questi: più povertà e disoccupazione; costo della vita maggiorato; diritti sociali diminuiti; pochi, più ricchi di prima.

Un allargamento della forbice sociale è indizio di iniquità; si tratta dunque di coglierne più approfonditamente le cause. Intanto le cause si colgono, nel nostro caso, dagli effetti prodotti: l’adesione all’Ue, cui hanno fatto seguito le devoluzioni di sovranità e quindi  politiche monetarie e fiscali imposte, a partire dal 2011, dalle commissioni europee ai Governi nazionali, da questi supinamente messe in atto, hanno – di fatto – impoverito il patrimonio degli italiani.

Stando così le cose, il recesso dall’ Unione Europea è semplicemente l’atto politico dovuto verso un progetto, forse per altri prospero, ma per noi fallimentare, se commisurato sui carichi e gravami sopportati da larghi strati della popolazione.

L’UE è un costo – fiscale e reddituale – senza benefici per l’Italia e per quella maggioranza di italiani i cui ricavi sono drasticamente diminuiti; mentre resta un’opportunità per poche elites di vertice: dirigenti di grandi aziende, direttori di gruppi bancari, etc.

Si rispecchia così negli esiti il fondamento ultra-capitalista dell’ impianto: molti lavorano per miseri guadagni; mentre pochi lavorano sul lavoro di altri con guadagni spropositati.

Siccome il peso politico delle elites di vertice, interessate a rimanere nel sistema euro è preponderante, gli italiani della classe di reddito medio-bassa si ritrovano per conseguenza dentro un sistema che li spolpa fiscalmente, schiavizza lavorativamente, in nome della maggior competitività, erodendo nel contempo i diritti sociali acquisiti dai cittadini nel corso del XX secolo e delle lotte per i diritti dei lavoratori; oggi, in nome del freno alla spesa pubblica, tutti i servizi dello Stato sono soggetti ai costi di privatizzazione. Il cittadino deve pagare e sostenere tutto: il PIL col suo lavoro, la spesa pubblica con i tributi, l’ UE con i suoi tribunali, parlamenti, banche ed uffici tramite le tasse europee, prossime a venire, nonché le risorse di stato destinate al fabbisogno del bilancio europeo. Cosa ne ha in cambio? Ospedali pubblici sempre più fatiscenti; scuole sempre meno formative con docenti sottopagati; università piuttosto costose; autostrade a pagamento; regole su regole che incombono a rendere complicato ed astruso ogni aspetto del convivere; se a questo si aggiungono le teorie di gender che si insinuano nelle scuole… Un pessimo affare.

Una serie di mali, una serie di costi, una serie di oneri, una serie di gravami. In definitiva, una burocratizzazione sovra-strutturale del già pesante apparato statale, un impoverimento cultural-sprituale cui segue anche una minore ricchezza reddituale: mantenere i parlamenti europei, le corti di euro-giustizia, le migliaia di uffici di euro-burocrati costa.

Tutto questo, per cosa? Povertà.

In definitiva, l’ Eurosistema priva i cittadini italiani sempre più dei loro beni nazionali, fino a spogliare dei redditi necessari e primari per il sostentamento: vitto e alloggio, utenze e servizi sanitari.

Il recesso dall’ Ue e da questo sistema sconveniente, come detto, pertanto non è neppure una possibilità: ma un atto dovuto ai cittadini.

Recedere dall’ Unione europea tuttavia rappresenta soltanto il primo doveroso passo verso il secondo: restituire il tesoro della moneta al sovrano: i cittadini. Ne abbiamo parlato nell’ intervento Di chi è l’immagine sulla moneta? Diamo al sovrano quel che gli spetta: il suo tesoro.

§

La proprietà della moneta è di chi crea il reddito.

Vogliamo ora spenderci ulteriormente in un approfondimento della tematica monetaria.

Ricordando ancora una volta che R = PIL, ribadiamo anche che il PIL,  ovvero il reddito nazionale, equivale al valore aggiunto (VA) dal lavoro nazionale.

Per intenderci, se 60 milioni di italiani in un anno producessero e vendessero una sola banana, il reddito della banana venduta è il Pil della nazione, ossia il prodotto interno lordo che consegue dal lavoro impiegato da 60 milioni di italiani per vendere quella banana.

Pertanto:       R = PIL = VA

Comprendiamo in questo modo che il reddito della nazione non è altro che la sommatoria in quantità e qualità di lavoro da essa espresso tramite il concorso produttivo di tutti gli operatori economici.

Ritorniamo così all’art. 1 Cost., laddove i nostri padri costituenti hanno saggiamente individuato nel lavoro la forza motrice di un’intera nazione:

“L’ Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.”

Parimenti, secondo il principio di giustizia espresso dal vangelo secondo il quale

“L’operaio ha diritto al suo salario”

ci chiediamo: chi riceve in tasca il salario dell’aumento del prodotto nazionale?

In altre parole: ad un aumento/diminuzione del PIL (cioè del reddito da lavoro nazionale), come si incrementa/diminuisce la ricchezza nazionale?

Evidentemente, in base all’ affluire di moneta nei redditi degli operatori. Ma laddove il PIL cresca, anche la stampa di moneta dovrà crescere: questo precisamente avviene ad opera della banca centrale, responsabile dell’ emissione dei biglietti.

La moneta viene dunque creata ed immessa, oppure ritirata e tolta dalla circolazione,  dalla Bce in proporzione alla crescita del Pil delle varie nazioni adetenti all’Eurosistema. La Bce, una Banca centrale collegata alle banche centrali nazionali, governa gli Stati nazionali europei tramite la politica monetaria.

Ma ecco l’ iniquità: la Banca centrale non stampa semplicemente la moneta per conto degli Stati in base alla crescita/diminuzione del Pil, ma ne acquisisce la proprietà vendendo i biglietti dietro corrispettivo di oro, titoli, valute.

Questo spiega perché l’ opinione economico-politica più diffusa spinga ansiosamente per la crescita del Pil, a prescindere dalle politiche di equa redistribuzione del reddito nazionale prodotto. La crescita del Pil è determinante affinché la Bce possa aumentare la liquidità nel sistema economico, ossia emettere nuova base monetaria che essa ha il potere di auto-assegnarsi, cedendone la proprietà ad altri solo dietro corrispettivo in titoli di Stato, oro, valuta straniera, o prestandola alle aziende di credito (le banche private).

Alle banche centrali non interessa una politica giusta, ma una politica che stimoli la produzione, senza riguardo per la condizione umana e sociale dei responsabili della produzione, lavoratori e imprese. Difatti è dall’ aumento della produzione nazionale che esse traggono la propria fonte di reddito; ma a quali condizioni questa si produca, non importa: se anche al prezzo di schiavitù spirituale, morale e materiale degli uomini, asserviti come buoi da tiraggio della catena produttiva.

La moneta globale, emessa sulla base del prodotto del lavoro dei popoli della terra, nasce dunque di proprietà di piccoli organi di emissione: le banche centrali. Ecco l’ iniquità. Queste si appropriano – legalmente e sotto gli occhi di tutti – di ciò che non gli spetta, per metterlo in circolo in forma di debiti di Stato o prestiti al sistema creditizio.

Chi decide, ad esempio, quanta moneta debba venire immessa in circolo nella nostra Repubblica nell’ anno “x”?  Sulla base di quali risultati tale decisione viene presa?

La risposta è: decide il governatore della Bce e il suo consiglio direttivo, sentite le banche centrali nazionali, socie di capitale, sulla base della crescita del Pil della nazione previsto per quell’ anno.

Ad esempio, se il Pil crescesse del 3%, il Governatore emetterebbe circa 1/2 di 3%, cioè 1,5% di moneta in più in circolo. Quell’ 1,5% per cento di moneta, che si commisura sul reddito da lavoro prodotto da centinaia di milioni di europei, si genera in proprietà alla Bce per centinaia di miliardi di Euro a costo pressoché nullo, quello tipografico di stampa dei biglietti, con cui la Banca centrale europea acquista oro, titoli di credito e valuta estera, pagando con i biglietti emessi e venduti non già al valore tipografico di merce, ma al loro valore nominale, arricchendosi così a dismisura ed arricchendo a dismisura i soci di capitale: le banche centrali nazionali.

Il fatto è sconcertante, tanto più che legalmente previsto ed avallato dai Governi nazionali: la moneta emessa nasce di proprietà, non già della nazione che ha prodotto il Pil col suo lavoro nazionale, ma della Banca centrale che la vende e presta tramite i suoi canali: il tesoro, da cui compra titoli di Stato, cioè promesse di futuro pagamento (ciò che genera il debito pubblico); le Banche private, a cui presta gran parte delle somme emesse; i mercati monetari, su cui compra valute estere; infine oro, che con le somme create la Banca centrale compra in ingenti quantità, per valore complessivo di bilancio che rasenta i 4.000 miliardi di Euro (cinque volte lo Stato italiano).

E’ un problema che crea un grave squilibrio: perché mai il Governatore ha il potere di firmare col suo nome e vendere la moneta creata, tramite prestiti e acquisti in oro e titoli,  se la moneta dipende – non dal suo lavoro, o dal lavoro dei dipendenti della Bce o delle altre banche centrali ed europee – ma dal lavoro di tutte le imprese, dei cittadini e  lavoratori, autonomi e dipendenti, pubblici e privati, d’Europa intera?

Per un’ iniquità consolidatasi a sistema, le cui ragioni storiche lasciamo ad altri di indagare ed esporre in dettaglio. Fatto è che le cose stanno veramente nei termini in cui le abbiamo descritte, come si può verificare, ad esempio, consultando alle pagine 313-316 il registro pubblico contabile delle attività/passività annuali della Banca d’Italia (anno 2008), che con il concorso delle banche centrali europee è socia di capitale della Banca centrale europea (Bce), responsabile dell’emissione della moneta euro, nonché proprietaria dei biglietti alla loro creazione.

§

La nostra azione politica vuole porsi dalla parte delle fasce più indebolite, non fosse per altro che per queste due ragioni: il fatto che costituiscono la maggioranza della popolazione e il fatto che è la forza del loro lavoro a produrre il reddito nazionale, a sostenere i costi dello Stato, a sostenere l’ apparato europeo, insomma a creare quella ricchezza su cui la Repubblica, l’ UE e la banche centrali e private stanno in piedi.

Le banche centrali stampano moneta a costo tipografico e lo vendono a costo nominale: non lavorano proporzionalmente ai loro utili; le banche private prestano il danaro che non è loro, ma sono depositi dai redditi del lavoro dei cittadini: anche queste, sostanzialmente, non lavorano attivamente per concorrere all’ incremento del PIL.

Il sistema bancario, che dovrebbe essere al servizio dell’ economia, sta invece al vertice come gestore dei debiti/risparmi di tutti. Tutti siamo indebitati: famiglie, imprese, finanche stati. Chi sono i creditori? Chi mai si può indebitare, perché ha il potere di creare la moneta e prestarla: le banche centrali.

Le banche centrali sono il modello perfetto dell’ azienda che uno vorrebbe: costi di produzione bassissimi; utili immensi e sproporzionati. La banca centrale è monopolista infatti di un particolare tipo di stock di merci: la moneta.

Questo stock ha la particolarità di essere sempre preferito ad ogni altro sul mercato: perciò la Banca centrale è certa di poter vendere tutti i biglietti che stampa. Inoltre, se i ricavi di un’ azienda sono la differenza fra costi e vendite, abbiamo una particolarità: la Banca centrale non vende già i biglietti che stampa a prezzo di merce, cioè carta impressa di segni tipografici; ma al valore nominale: essa cede cioè la moneta legale per il valore che ha all’ immissione. Ecco come si arricchisce: emettendo moneta proporzionale all’ aumento del PIL derivante dal lavoro della nazione, e assegnando a se il valore emesso, perché acquisisce la proprietà dei biglietti al momento dell’ immissione sul mercato, vendendoli o prestandoli al valore nominale.

Come detto, ripetiamo che la moneta viene immessa dalle banche centrali nell’economia tramite autoassegnamento della proprietà all’atto della creazione e successiva vendita, acquisendo in contropartita, come visto, titoli di Stato, crediti, oro e valuta estera, o prestiti al sistema creditizio privato (mantenendone dunque la proprietà con la prospettiva della maturazione degli interessi legati al prestito).

Ecco perché gli utili di contabilità, ad esempio, della Banca d’Italia, nel 2008 sono pari a circa 1/3 degli utili dell’ intera nazione italiana: circa 250 miliardi di euro, fra oro, titoli di stato, valuta, crediti. Questo è il peso economico che deriva dal più grande arricchimento indebito della storia: il poter di creare danaro ed intestarsene la proprietà, per rivenderlo sotto forma di debito ai compratori – gli Stati con le loro promesse di titoli di: “ti pagherò, ti pagherò”!

Come è possibile che una Banca che deve stipendiare meno di qualche centinaio di dipendenti al suo interno, incorpori fra i suoi redditi la potenza economica reddituale pari a circa un terzo del reddito della nazione? L’ abbiamo detto all’ inizio: è una iniquità di sistema. Un arricchimento indebito, secondo l’ art. 2041 c.c. :

“Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’ arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale“.

Dopo aver indennizzato le Repubbliche che ha indebitato, prestandole moneta non sua come fosse sua, la proprietà della moneta, tolta alla disponibilità delle banche centrali, dovrà accreditarsi ai veri agenti della crescita economica: le persone concrete, i protagonisti della vita economica della nazione, che contribuiscono al suo progresso materiale o spirituale tramite lo sforzo congiunto dei propri talenti.

§

Altri aspetti: la competitività non è un criterio.

Abbandonare i cittadini alle ciniche logiche della competitività del resto significa asservire una politica folle e miope, un mal governo d’interessi elitari, dai risultati opprimenti sotto gli occhi di tutti. Mettiamocelo in testa. Noi non possiamo competere con la Cina: perché dietro la potenza economica cinese c’è la schiavizzazione del lavoro umano; cioè la distruzione della nostra dignità di uomini creati da Dio per la libertà, non per l’ asservimento al lavoro.

Il lavoro esiste per il profitto. Ma il profitto è funzionale al mantenimento della vita terrena; non viceversa. La vita terrena ci è stata donata da Dio in funzione di quella celeste, per la pienezza della felicità eterna nella sua visione, non per essere assorbita e sprecata nell’ estenuante ed immorale tensione verso un caduco profitto. Dimenticare il fine celeste per il terreno, sottomettere la vita al lavoro, e in definitiva al profitto, è segno di scarsa intelligenza.

Viviamo, da questo punto di vista, un’ epoca retrograda e subculturale.

Non vi è nulla di più instabile infatti del profitto. Esso non può stare fermo: nella sua natura è di essere mosso, depositato, investito, e in definitiva, perso, o mortis causa, o altrimenti, perché scorso il tempo, ciò che valeva non vale più nulla. Un miliardo di lire 20 anni fa’ valevano una fortuna; oggi sono carta straccia senza valore. La moneta è tanto instabile quanto instabile è l’ uomo che cerca nel profitto la sua soddisfazione ultima: non la troverà mai. Infatti: se anche se l’ uomo guadagnasse tutta la moneta presente sulla terra, morendo, la dovrà lasciare; e pure vivente, essa perderà inesorabilmente il suo valore, soggetto ai moti imprevedibili della domanda e dell’offerta. La moneta semplicemente non ha altro valore che quando può essere scambiata e ceduta per altro; perciò si cerca: per la sua liquidità, perché facilita gli scambi, perché – essendo accettata e gradita da tutti – costituisce fondi di valore temporanei laddove non si sappia cosa acquistare in quel momento. Ma in definitiva essa è il frutto di una convenzione sociale, della fede immanente degli uomini. Senza la fiducia umana, la moneta cessa il suo valore. D’ altra parte, come detto nell’ intervento Oltre la civiltà del commercio, quand’ anche la moneta conservasse in modo imperituro il suo valore, essa non è in grado di acquistare ciò che rende felice l’ uomo: l’ amore e l’ amicizia, umane e divine. Perciò chi brama la moneta come fine del vivere è un insensato: insegue un sogno, che quand’ anche raggiungerà, lo renderà infelice, così come amare una bella donna in sogno rende infelici: svegliandoci ci si accorge dell’ evanescenza di ciò che si inseguiva.

Per comprendere il puro valore convenzionale della moneta, osserviamo l’ andamento dei Bitcoin. Essi sono nati con il valoro unitario pari a un dollaro circa. Nessuno li voleva. Oggi milioni di persone li vogliono solo perché altri li hanno nel frattempo voluti, e con ciò, avvalorati: il valore della moneta, non è dunque la moneta, ma le persone che vogliono. Il valore è la volontà umana. E’ la domanda delle persone che crea il valore delle cose: le cose, in se stesse, hanno un valore prossimo allo zero. Ma la volontà avvalora ció che vuole solo per questa ragione: che può volere Dio.

§

Introduciamo a questo punto una distinzione importante fra valore convenzionale e valore specifico.

Questo ci aiuterà meglio a comprendere la reale portata dei beni, relativamente al loro mercato e alle politiche che dovremo realizzare.

Chiamiamo beni tutte le cose volute/domandate per un bisogno da parte degli uomini. Sono beni gli alimenti, i materiali edili, le acque, i tessuti, i metalli conduttori, i metalli e le pietre preziose, gli organi, il sangue, l’ossigeno, le case, le piante, le monete aventi corso legale, nonché quelle antiche. Tutto ciò che esiste, a ben vedere, porta entro di sé un certo valore.

Ora, i beni creati, per noi uomini hanno un valore assoluto o uno relativo?

A ben vedere, vi sono beni assolutamente necessari all’ uomo, il cui valore dunque non è relativo, in caso di loro assenza; mentre ve ne sono altri il cui valore è relativo, nonostante la loro potenziale preziosità (dovuta perlopiù a rarità), in quanto potremmo farne a meno senza essere privati della vita.

Assoluti sono quei beni che permettono all’ uomo di vivere: la luce del sole, l’ ossigeno, l’ acqua, le sostanze nutritive, i vestiti (si può certo morir di freddo), il tetto e simili. Poiché per fare i vestiti e le case, occorrono materiali edili e tessuti, questi sono beni molto vicini a quelli necessari per la sopravvivenza umana, sebbene indirettamente. E così tutti quelli simili, come il gas, per riscaldarsi, la corrente elettrica per illuminare le strade etc…

Relativi sono quei beni di cui l’ uomo non ha bisogno per vivere: tali ad esempio, taluni beni tecnologici, i beni voluttuari e simili…

Fatta questa distinzione, attribuiamo un valore specifico ai beni creati, a seconda della loro prossimità alle prime necessità umane, in una scala da A a D, dove A segna beni di primaria importanza per la vita umana, mentre D rappresenta beni voluttuari.

Ad esempio: l’ossigeno ha valore A. L’ acqua potabile ha valore A. Senza aria e senz’ acqua l’ uomo muore. Ma il fine dell’ uomo è la vita, non la morte. Quindi chi, per realizzare un profitto, snaturasse le fonti d’acqua privatizzandole in condutture per fini economici di profitto, farebbe un’azione odiosa e contro natura, e la società dovrebbe reprimerlo e punirlo.

Ancora, che senso ha parlare nel XXI secolo di “civiltà”, laddove l’ accesso all’ acqua non è ancora sistematicamente e globalmente assicurato a tutte le popolazioni? L’ acqua è fonte della vita, dell’ agricoltura. La civiltà, come la Scrittura mostra, è sorta e si è formata intorno ai pozzi d’acqua.

Seguendo il filo del discorso, si capirà come nella nostra idea di Governo, esso è tale solo in quanto assicura a tutti i suoi cittadini l’ accesso il più possibile sgravato da costi alle fonti prime di beni di peso specifico A, il cui valore cioè, non è convenzionale, ma reale e assoluto.

Tali sono acqua, alimenti, vestiti, tetto e cure: tutti devono avere la possibilità di averli, ed averli in un duplice modo: per diritto naturale, in quanto sono uomini; e per reddito sociale, in quanto ciò che permette ad essi di ottenerli è la moneta, il cui valore essi creano in parte tramite il valore aggiunto derivante dal loro lavoro, in parte per convenzione e bisogno di moneta per le transazioni.

Dobbiamo dunque costituire un Governo che avendo in sé la visione naturale cara a Dio, per cui tutte le cose create sono beni, e i beni sono destinati a soddisfare universalmente la domanda/bisogno degli uomini e degli animali che di quelli necessitano per vivere, accrediterà a tutte le persone quel reddito bastante ad acquistarsi il pane quotidiano come diritto di proprietà, non già come elemosina di stato. Inoltre garantirà anche agli animali spazi adeguati per riprodursi e vivere secondo natura, senza assoggettarli a crudeli forme di sfruttamento e dominio..

Torniamo così al punto da cui eravamo partiti: l’importanza della moneta, da accreditare in proprietà ai cittadini al momento dell’ emissione, in quanto sono loro, col loro lavoro, i responsabili della crescita lorda nazionale. Sono inoltre, per il frutto della loro accettazione che crea il valore convenzionale legale, i destinatari di un reddito commisurato al lavoro intellettuale che determina l’avvalorarsi della carta moneta.

Ma si dirà: se i cittadini hanno i soldi tanto facilmente, smetteranno di lavorare! Falso, perché il lavoro non è soltanto dettato da necessità, ma anzitutto da una vocazione naturale che Dio ha immesso nel nostro cuore, verso la coltivazione della terra di cui ci ha fatto signori, e non schiavi, come dice Genesi:

“Dio diede la terra all’ uomo e alla donna perché la coltivassero”

La coltivazione del giardino si traduce in possibilità di decoro per tutti; il lavoro da disoccupazione può esistere solo laddove si dimentichi che Dio ci ha messi all’ esistenza per coltivare anzitutto la vigna interiore del nostro spirito, nella cura del giardino comune, affinché, tramite l’ azione sociale nel mondo, pervenissimo alla cittadinanza celeste.

Perciò il nostro indirizzo economico deve prevedere forme di tutela dell’ humus economico fatti salvi i diritti inalienabili che ci provengono per natura per il fatto stesso di essere creature fatte da Dio simili a lui e degne di lui.

Dio ci vuole lavoratori, sì, ma liberi, per crescere nella sua grazia e carità.

La liberazione dal lavoro significa accrescimento dei valori etico-spirituali, dei talenti artistici che Dio ci ha donato a corona del creato.

Il faraone, invece, cioè il capitalismo sfrenato ci vuole schiavi di piramidi non nostre, di edifici non fondati su Cristo ma sull’ ambizione avida ed elitaria di pochi. In definitiva, l’ asservimento al modello economico imperante significa svalutazione delle nostre vere potenzialità contemplative, filosofiche, artistiche, vale a dire di tutte quelle attività dette liberali in quanto liberano l’uomo da un agire meramente condizionato all’assicurazione di un profitto.

La Scrittura ci rivela, al contrario, la mentalità del faraone, che al riguardo non sa formulare altro che giudizi avari e neghittosi circa la dignità degli uomini:

“Sono solo dei fannulloni; dicono di voler servire Dio nel deserto, ma sono solo dei fannulloni; perciò raddoppierò il numero dei mattoni che mi dovranno preparare”. (Esodo)

Poiché al faraone, cioè alla mentalità capitalistica sfrenata, non interessa Dio, egli neppure conosce l’ uomo: dubita dell’ uno e dell’ altro. Crede che gli altri siano per lui, al suo servizio, e non già lui stesso al servizio della comunità sopra cui Dio lo ha posto in potere per servirla e orientarla a Lui, non per essere servito e sfruttarla per farsi costruire il proprio sepolcro piramidale.

La piramide UE deve pertanto essere rovesciata: affinché le banche tornino al servizio dei governi, i governi al servizio dei cittadini, e i cittadini al servizio di Dio che, umile, serve tutti indistintamente.

Oggi avviene il contrario: in cima alla piramide vi stanno i governatori delle banche centrali che incitano: “Più PIL, più PIL!”, vale a dire più mattoni. Sotto di loro i caporali: cioè i governi, servi dei governatori delle banche centrali; sotto tutti, la massa degli schiavi: i cittadini lavoratori; le persone, non più libere,  perché dimentiche di Dio e asservite a un fine di capitale. Mentre le persone sono esse stesse il fine per cui il creato esiste, e dunque anche il fine della politica e dell’ economia.

Ecco perché la piramide va rovesciata: perché la persona è il fine del creato, e il fine del creato è Dio.

Solo l’ asservimento al profitto può creare disoccupazione: perché le imprese che non hanno bisogno di lavoratori, licenziano. Dio non crea disoccupati: perché il mondo ha sete di giustizia, e di lavoratori che operino nella vigna del Signore.

La Costituzione italiana, mirabilmente, reca traccia di questo doppio indirizzo, laddove riconosce che ogni persona promuovere il bene della nazione materialmente o spiritualmente:

Art. 4, Cost. : “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilita` e la propria scelta, una attivita` o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Caro lettore, Dio ti benedica! Se hai qualcosa di pertinente da aggiungere, osservazioni critiche da muovere, o semplicemente desideri complimentarti con l' autore dello scritto, qui puoi farlo, purché con spirito costruttivo e carità fraterna. Grazie!

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